Wednesday, May 30, 2007

A Mobile Cartography of the Knowledge Factory


I conducted the following interview with Ranabir Samaddar of the Calcutta Research Group at the Global Meeting in Venice at the end of March 2007. The interview, which was transcribed and translated by Gigi Roggero, was published in Il Manifesto, on 23 May. The conversation with Ranabir is also available as a video download on the edu-factory site, along with two other interviews with Wang Hui of Tsinghua University, Beijing and Stanley Aronowtiz of the City University of New York.

E in Italia ha preso il via l'esperienza di «Edu-factory», discussione on line sul «mercato della formazione» con il coinvolgimento di docenti, ricercatori e studenti a livello mondiale La globalizzazione cambia la mappa e le gerarchie nella produzione di conoscenza e sapere. Un'intervista con lo studioso indiano Ranabir Samaddar.


Non sono pochi gli studiosi che stigmatizzano le analisi sul lavoro cognitivo e sulla centralità della produzione di saperi come eurocentriche, in quanto non terrebbero in considerazione la maggior parte delle aree del pianeta. Ma proprio in questa critica alligna il frutto avvelenato di una visione eurocentrica, che relega i paesi di quello che veniva chiamato Sud del mondo a mera riserva di manodopera e spazio per una brutale accumulazione primitiva di capitale, privando così i conflitti e le pratiche di resistenza di voce e radicalità.

Rovesciare l'eurocentrismo significa allora spiazzarne la prospettiva, situando ad esempio in India il punto di osservazione del capitalismo cognitivo e del mercato globale con il fine di disegnare una mappa delle gerarchie relative alla produzione dei saperi. Una mappa, tuttavia, che non corrisponde più alla tradizionale immagine della divisione internazionale del lavoro e nella quale le singole aree metropolitane sono spazi immediatamente globali. Da qui l'emergere di elementi comuni tra le trasformazioni dell'università e delle lotte che hanno attraversato l'Europa negli ultimi due anni (dall'Italia alla Francia alla Grecia) e quelle che stanno mutando il volto del sistema formativo in Asia. Ed è attorno al rapporto tra globalizzazione e università che comincia l'intervista a Ranabir Samaddar, attento critico dell'India contemporanea, in Italia su invito di alcune università italiane.

Dopo una lunga fase in cui gli indiani andavano a studiare all'estero, in particolare nelle università americane e inglesi, ora il trend sembrerebbe essere cambiato. Qual è la posizione dell'India a livello globale nel campo della formazione?

Nell'obiettivo di produrre una knowledge class possiamo individuare due aspetti che hanno molto a che fare con il sistema delle caste che regola la vita sociale indiana. Da una parte, c'è la casta più alta, da sempre depositaria del sapere. Possiamo dunque dire che l'idea di una società diretta da una knowledge class è una vecchia idea in India. Il secondo aspetto è che gli inglesi hanno distrutto il sistema di formazione tradizionale con la presidency university, cioè le «università di élite» del paese. Questo non ha però cancellato una tradizione molto antica: quando hanno potuto, gli indiani hanno sempre mandato i loro figli a studiare all'estero. Con l'indipendenza, l'India non ha però imboccato la strada di quelle che sono state spregiativamente chiamata le Banana Republic dell'Africa o del sud-est asiatico, favorendo la crescita di un ceto medio caratterizzato dalla presenza di tecnici, medici, ingegneri, avvocati.

È possibile parlare di una tendenza all'università di massa in India? Inoltre: quali sono gli effetti delle trasformazioni dell'università sulla composizione sociale, sul mercato del lavoro e sui processi di sviluppo economico?

È difficile in India parlare di università di massa. Attualmente, assistiamo semmai al processo opposto, attraverso la formazione di poli d'eccellenza. Negli anni Sessanta la lotta contro le caste dei dalit (una delle caste più in basso nella scala sociale, n.d.r.) ha certamente determinato un'apertura del sistema formativo paragonabile a ciò che è successo negli Stati Uniti con il movimento per i diritti civili. Dunque, un aumento delle possibilità di accesso all'università c'è stato, seppur contraddittorio e con forti squilibri regionali e sociali. Abbiamo quindi un funzionamento della formazione università con una sua specificità, che condiziona e che, a sua volta, viene condizionata dai processi della globalizzazione.

Nel 2001, c'è stata una sentenza della corte suprema di considerare un diritto alla mensa per tutti i bambini che vanno a scuola, una disposizione applicata dal governo del Bengala occidentale nel 2004. Da quel momento i bambini della casta bassa mangiano alla stessa tavola dei bambini della casta più alta. Prima nelle scuole avevamo quella che si può chiamare uguaglianza pubblica, ma adesso i bambini sono «forzati» a mangiare insieme. È difficile valutare le conseguenze della rivoluzione sociale determinata da questo provvedimento. Sempre in quegli anni è è stata istituita una commissione nazionale che doveva definire le linee guida per rendere competitiva l'India a livello globale. A partire da ciò il governo ha presentato una riforma generale dell'educazione basata sull'apertura di 50 «università di eccellenza», alcune in franchising con la John Hopkins University, Cambridge e altre università.

L'introduzione di questi poli d'eccellenza è stata motivata anche dal fatto che il mercato della formazione in India è il più grande del mondo. Nel mio paese abbiamo bisogn di 25.000 professionisti del software che lavorino per 5 anni allo sviluppo di programmi informatici di insegnamento a distanza e a digitalizzare i corsi per tutte le università nelle 18 lingue che sono parlate in India. A testimoniare l'estensione del mercato della formazione ci sono le grandi case editrici come Routledge o Cambridge che hanno aperto uffici in India. Ho un'amica che è direttrice di Taylor & Francis, la più grande casa editrice del mondo: sostiene che il profitto di Routledge in India è uguale a quello che ha nel resto del mondo, a parte Stati Uniti e Regno Unito. Saeg ha compiuto una grossa ristrutturazione, riducendo le pubblicazioni nel campo umanistico e delle scienze sociali, allargando notevolmente la produzione di testi professionali, dalla medicina all'ingegneria. Anche i giganti di software e hardware sono di recente entrati in India. Infine, le raccomandazioni della «Knowledge Commission» sono molto chiare a proposito dei centri d'eccellenza: ad esempio, attraverso il franchising, l'università di Chicago avrà l'opportunità di aprire un campus in India con docenti che verranno pagati meno che a Chicago.

In Europa e in Nord America l'università è un nodo importante sia per i conflitti su saperi e formazione, sia nell'organizzazione delle lotte sociali. Avviene qualcosa di analogo anche nel contesto indiano? A quale livello agiscono i movimenti universitari di studenti, precari e docenti?

In India gli anni Sessanta sono stati uno spartiacque che ha visto lo sviluppo di un movimento maoista molto radicale. Sempre in quel periodo, il governo, dal canto suo, ha introdotto riforme nel sistema formativo che hanno avuto nel controllo nell'insegnamento il loro cuore. Ha istituito agenzie per controllare cosa è insegnato nei corsi di storia, nelle scienze sociali o umane e che definiscono i criteri per l'assegnazione delle borse di studio e il finanziamento dei i progetti di ricerca.

Dunque, gli anni Sessanta sono stati, per l'Università, una stagione di conflitti e di trasformazione. Conflitti che hanno coinvolto non solo gli studenti, ma anche i docenti e i ricercatori. Dalla metà degli anni Settanta fino al 2000 possiamo invece parlare di una «contro-rivoluzione» nel settore della formazione. Il sogno di molti studenti è diventato quello di diventare un professionista del software e andare a vivere negli Stati Uniti. Nell'immaginario collettivo si è fatta invece strada la figura del ragazzo povero che prende la laurea in chimica o fisica e diventa uno scienziato di fama mondiale negli Stati Uniti. Possiamo dunque affermare che è stata favorita la crescita di una classe media fortemente professionalizzata, mentre poco spazio era destinato alla letteratura e alle le scienze sociali o umane.

Si è scritto molto negli ultimi anni sul miracolo economico indiano. Per quanto riguarda l'università questo ha significato il ritorno di molti laureati, che lasciano gli Stati Uniti e magari iniziano a insegnare in India o che danno vita a imprese che si muovono nel settore dell'high-tech o delle biotecnologie.

Lei parla di una realtà universitaria in forte movimento. Ma quali sono i punti forti e quali quelli deboli della formazione universitaria?

Una realtà in movimento che presenta però delle faglie. Dobbiamo partire dal fatto che non è più un luogo che produce saperi critici e politici come negli anni Sessanta. Oggi questi saperi sono prodotti altrove, nei gruppi di base, tra i dalit, nei collettivi femministi. Questa è una ragione per cui il nostro gruppo, il «Calcutta Research Group», ha conquistato un grosso prestigio nonostante il fatto che siamo pochi e lavoriamo in circostanze molto difficili. Abbiamo la possibilità di lavorare su saperi di frontiera, cosa che non è possibile nell'accademia, e questo è molto apprezzato. Il fatto che l'università non sia un luogo di produzione di saperi critici non vuol dire che abbia smesso di essere un luogo di conflitto, al contrario.

Le entrate nell'università della casta bassa, dei dalit e delle donne sono rese possibili dal carattere pubblico dell'università sin dal tempo della dominazione inglese. Questo apertura ha provocato una seconda faglia. Il governo centrale vuole, ad esempio, riservare il 23% dei posti nelle scienze mediche ai dalit (l'India è infatti nota per produrre medici di qualità che vanno nel Regno Unito e negli Stati Uniti). Gli studenti delle classi alte contestano questa misura, sostenendo di essere arrivati a studiare per il loro merito. Da qui la loro contestazione del diritto di accesso all'educazione. Non siamo ancora a una situazione paragonabile alla critica dell'affermative action che c'è stata negli Stati Uniti, ma è indubbio che la tensione attorno a questo problema crea uan situazione di conflitto tra le apirazioni a una univeristà pubblica e aperta a tutti e chi è mosso invece da una logica selettiva nell'accesso alla formazione universitaria.

L'ultima faglia riguarda quindi il modo in cui il governo vuole finanziare i livelli più alti dell'educazione. Dobbiamo partire dal fatto che il 40% della popolazione in India è tutt'ora analfabeta, mentre cresce anche l'analfabetismo di ritorno. E' dunque sui finanziamenti dei centri d'eccellenza che si colloca la linea di conflitto su globalizzazione e formazione. Quindi, parlare di università e istruzione superiore significa privilegiare una realtà minoritaria rispetto a una domanda sociale di formazione molto più vasta. In altri termini, molti gruppi di base spingono affinché il diritto all'accesso alla formazione universitaria si un diritto universale, ma ma l'élite privilegia la costituzione di centri di eccellenza, magari attraverso la moltiplicazioni di università private. Insomma, le linee del conflitto sono mutevoli e articolate e provocano un mutamento profondo nel rapporto tra globalizzazione e formazione. Ma mi sembra che le faglie che io vede nell'università del mio paese non siano sono prerogative dell'India. Hanno certo delle specificità, ma attorno all'università, alla produzione di sapere si gioca una partita molto importante: la mappa dei poteri nella globalizzazione.