Tuesday, November 28, 2006

Commodity and conflict, Creatives at work on the net




The following review of the MyCreativity conference (Amsterdam, 16-18 November 2006) was published in Il Manifesto on 26 November 2006.


«MyCreativity». Ad Amsterdam studiosi, designer e informatici discutono di «creativity industry». Dalla precarietà alle esperienze di produzione alternativa, prove tecniche di una politica reticolare
.


«Siamo tutti nati originali, ma la maggioranza di noi muore come copia». Suona così uno degli slogan riprodotti nel libro Creativity For All della designer olandese Mieke Gerritzen e distribuito ai partecipanti al convegno MyCreativity: Convention on International Creative Industries Research, organizzato da Geert Lovink (dell'Institute of Network Cultures della Hogeschool van Amsterdam) e Ned Rossiter (del Centre for Media Research dell'università di Ulster) che si è tenuto di recente ad Amsterdam. Con una grafica di forte impatto - e pieno di slogan come «Produzione della significanza = produzione del valore = produzione del conflitto» - il libro di Gerritzen è solo uno dei prodotti nati in occasione del convegno. Un incontro preparato con un notevole sforzo organizzativo che ha fatto leva su una mailing list attivata con sei mesi di anciticipo e grazie alla quale sono state distribuite gratuitamente 10 mila copie del giornale The Creativity, ed è stato possibile accedere ai filmati degli interventi (www.netcultures.org). Ad Amsterdam è stato anche presentato Organised Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions (Nai, euro 23,50) di Rossiter, un testo che, insieme agli scritti di Lovink, già noto in Italia, rappresenta il quadro teorico più coerente della filosofia e della politica di cui il convegno voleva farsi espressione.

Se in Italia la cosiddetta «industria creativa» è stata protagonista nell'ultimo decennio da un lato della retorica dell'imprenditorialismo berlusconiano e dall'altro della grande fuga del «made in Italy», molti altri paesi hanno seguito una politica più elaborata. Sopratutto il Regno Unito di Blair che nel 1997 ha introdotto le sue prime policies, un corpo di interventi per stimolare job creation e favorire la crescita economica attraverso la moltiplicazione dei cosiddetti creative clusters nelle città e «lo sfruttamento della proprietà intellettuale». Ma anche Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Svezia, Taiwan e Singapore hanno avviato politiche governative a sostegno dell'innovazione. Background comune, in modo più o meno esplicito, sono le idee divulgate da Richard Florida nei suoi libri sulla «classe creativa» (La crescita della classe creativa e La classe creativa spicca il volo, editi da Mondadori e recensiti su queste pagine il 12 febbraio 2004 e il 24 novembre 2006). La buzzword dell'industria creativa è arrivata anche nelle metropoli cinesi: la sfida è passare dal «made in China» al «created in China». L'industria cinese ora cerca non solo di copiare la scarpa la cui foto digitale è arrivata a Shanghai pochi minuti dopo essere stata messa in vetrina in via della Spiga, ma di creare una scarpa della stessa qualità e che interpreta le tradizioni cinesi per un mercato globale.

Ma industria creativa significa anche capacità innovativa delle imprese capitalistiche. L'innovazione non riguarda solo la produzione di merci come scarpe, musica o web design, ma anche software, biotecnologie o perfino le più sofisticate armi militari (un'attività che coinvolge sempre di più la technology transfer dalle università). Il punto, però, non è se la creatività o l'innovazione coinvolgono merci eticamente discutibili, bensì che l'industria creativa produce merci con una loro indifferenza formale nonostante l'iniziativa innovativa che ha contribuito alla loro esistenza. È per questo che il gergo dell'innovazione o della creatività nel capitalismo postfordista è diventato una specie di codice per dire più dello stesso. Si tratta di un'azione innovativa che ha capacità di creare un'apertura politica. «Il conflitto non è una merce. La merce invece no, la merce è sopratutto conflitto», come recita uno slogan del gruppo «guerriglia marketing» (www.guerrigliamarketing.org).

MyCreativity è nato con l'intenzione di esplorare questo conflitto non dal punto di vista delle imprese o della policy ma da quello del creativo, cioè del soggetto senza il quale queste industrie non esisterebbero. Non si tratta solo dei conflitti che nascono dalla diffusa precarietà del lavoro creativo o dell'eccesso di passione che lega il creativo alle sue condizioni di sfruttamento, ma di quelli emergenti nei cosiddetti creative clusters delle metropoli. Che non favoriscono la crescita economica attraverso la proprietà intellettuale, ma attraverso il mercato immobiliare che prima si gonfia col crescere dell'attività creativa e poi «sfratta» il «creativo-precario» che non riesce più a pagare l'affitto. Ma il convegno ha avuto il pregio anche di evidenziare altri conflitti che hanno radici nella natura più intima del capitalismo post-fordista, come dimostra la reazione ostile del pubblico alla retorica del «dibattito aperto» e di «libera scelta di ogni creativo di partecipare o no al sistema del copyrigh» di un esponente della Wipo (World Intellectual Property Organization).

Ma se l'impostazione critica verso il concetto di industria creativa è stata il terreno comune dei partecipanti, obiettivo dichiarato degli organizzatori era il superamento dell'elaborazione fin qui prodotta, ad esempio dalla scuola di Francoforte contro la cosiddetta industria culturale o dai post-operaisti italiani contro il capitalismo cognitivo. Per questo è stato dedicato molto spazio all'analisi delle «pratiche creative alternative», cioè a quelle forme organizzative che si giostrano tra il rischio di cadere intrappolati nel sistema di public-private partnerships (tipico della governance nei paesi anglosassoni nell'ultimo decennio) e la gratuità del lavoro che qualifica le iniziative open source (almeno fino a quando sono inglobati da interessi privati). In questa ottica è significativa l'esperienza di Lovink e Rossiter come promotori di mailing lists come nettime e fibreculture, esperienza che hanno contribuito allo sviluppo di una politica reticolare tesa non al confronto tra verticalità e orizzontalità ma a rendere problematico questo confronto. Da qui la scoperta di modalità di organizzazioni non rappresentive al tempo stesso distribuite e decisionistiche. Per molti versi MyCreativity è stato un concentrato di questa politica reticolare, interessante più per la forma che per il contenuto. Un caso raro in cui al «collegamento» digitale è stata data l'opportunità di diventare relazione politica.

Tuesday, November 14, 2006

Il paradosso del laboratorio italiano


The following article was published in Il Manifesto on 12 November 2006 as part of a special section entitled In the shadow of the factory. The special section was to mark the 40th anniversary of the publication of Mario Tronti's Operai e capitale, the so-called bible of operaismo, as well as the republication of this text by DeriveApprodi. The other contributions by Mario Tronti/Ida Dominijanni, Gabriele Polo, Vittorio Rieser, Gigi Roggero, Toni Negri, Sergio Bologna and Catrin Dinger are available here.


Una teoria della rivoluzione che nasce in Italia dalle lotte degli anni Cinquanta e Sessanta e non poteva nascere altrove. Ma penetra nel mondo anglofono quando «l'esperimento italiano» è chiuso, grazie alla sua capacità di leggere il postfordismo nascente.


Sarà un caso che il Lenin di Tronti abbia soggiornato non in Italia ma in Inghilterra, e il suo Marx a Detroit? Scrivere della recezione di Operai e capitale in quello che in Italia si insiste ancora nel definire come «mondo anglosassone » è difficile. Una delle ragioni sta nel fatto che il libro di Tronti non è mai stato interamente tradotto in quella lingua, l'inglese appunto, che è usata da tempo a livello mondiale più come seconda che come madre lingua, il cosiddetto global English, l'equivalente generale di tutte le lingue. Perfino oggi in inglese si trovano solo quattro capitoli di Operai e capitale, più il Poscritto dei problemi dell'edizione del 1971; e tutti e cinque sono disponibili su Internet. Ed è proprio dall'elenco dei capitoli tradotti (e quando e da chi) che propongo di partire, non tanto per puntiglio filologico ma per offrire una guida all'impatto del primo Tronti nell' English-speaking world.

Prima però è opportuno considerare un paradosso di partenza, che influenza non solo la traduzione ma la stessa scrittura di questi saggi. Da un lato, i concetti e la metodologia di Operai e capitale sono il frutto delle lotte operaie che si sono dispiegate in Italia negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Il libro si situa inuncontesto reale, cheTronti chiama la fabbrica, e che non fornisce tanto la base di una teoria quanto le coordinate di una pratica: un nuovo modo di praticare la politica o meglio un nuovo «stile» politico. L'operaismo è nato in quella provincia che si chiama Italia e questa nascita non poteva avere luogo altrove.

Dall'altro lato, se si legge Operai e capitale è chiaro che l'analisi diTronti si basa su una realtà che esiste al di là del «caso italiano», cioè sull'unità del movimento della classe operaia a livello mondiale. In Lenin in Inghilterra si legge infatti: «La forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e constringe il capitale - entro un lungo periodo storico - a rendersi altrettanto omogeneo». E' questa cosiddetta omogeneità non della classe operaia ma della forza-lavoro (che, merita di ricordare, per Marx è non solo una merce circolante al pari delle altre, ma anche una categoria astratta della potenzialità) che fornisce il luogo comune a partire dal quale si può capire la diffusione del pensiero operaista attraverso contesti linguistici e culturali diversi. Si tratta insomma di qualcosa di più di quello che Edward Said ha chiamato «travelling theory». La forza-lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze geografico/ culturali si toccano e deflagrano. E si badi bene: la posta in gioco è ben altro che l'analisi dell'impatto della lotta operaia nei suoi vari contesti storico/geografici - un approccio che di fatto offrirebbe una critica solo parziale del capitalismo.

È in questa ottica che ha senso interrogarsi sul contesto in cui alcuni capitoli di Operai e capitale sono stati tradotti in Inghilterra e negli Stati uniti negli anni Settanta, e cioè dopo quel Sessantotto che per Tronti sarebbe stato lo spartiacque che dell'operaismo annuncia la fine. Le prime traduzioni sono apparse negli Stati uniti nel biennio '72-'73, al tempo cioè della crisi petrolifera, della fine della guerra in Vietnam e soprattutto, secondo autori come Frederic Jameson o David Harvey, dei primi passi del capitalismo postfordista. È del '72 la traduzione sul giornale Radical America di una parte del capitolo di Operai e capitale intitolato Marx, forza lavoro, classe operaia, al fianco di un pezzo intitolato Theses on the Mass Worker and Social Capital, scritto da Silvia Federici e Mario Montano sotto lo pseudonimo di Guido Baudi. Lo stesso anno la rivista newyorkese Telos tradusse il Poscritto di problemi con una introduzione di Paul Piccone. Seguì poi nel '73 la traduzione su Telos di Social Capital, pubblicato con il titolo originale Il piano del capitale. Nel frattempo Ed Emery e John Merrington del Red Notes Collective in Inghilterra tradussero vari scritti operaisti, fra cui Lenin in Inghilterra e La strategia del rifiuto che, prima apparsi come opuscoli, sarebbero usciti nel '79 in un volume intitolato Working Class Autonomy and the Crisis.

Questo elenco non solo esaurisce ciò che di Operai e capitale è stato tradotto in inglese ma anche ciò che è stato tradotto dell'intera opus trontiana (sembra che Telos comprò i diritti di traduzione di Tronti da Einaudi, ma l'intenzione di procedere sparì dopo la morte di uneditore importante). Vale la pena di sottolineare che se da un lato è forse possibile cogliere l'argomento del libro nella sua interezza e complessità mettendo insieme i frammenti pubblicati in circostanze così diverse, tale ricostruzione diventa lo sforzo di pochi militanti.

Le traduzioni di Tronti sono sempre state pubblicate al fianco di altri pezzi del marxismo internazionale o operaismo italiano: Georg Luckács e Sergio Bologna in Telos, Toni Negri e lo stesso Bologna in Red Notes, e poi Bifo, Paolo Virno e altri nell'importante antologia intitolato Italy: Autonomia- Post Political Politics del '79 curato da Sylvère Lotringer e Christian Marazzi. Il punto è che non si è mai dato spazio ad una lettura sistematica di Tronti in inglese. Il Tronti dell' English-speaking world è parte di un mix selettivo dell' operaismo e di conseguenza i suoi conflitti e disaccordi con tanti dei suoi compagninon sempre sono stati evidenziati. E questo nonostante il fatto che il Poscritto del '71 (pubblicato non solo da Telos ma anche in un volume britannico intitolato The Labour Process and Class Strategies del '76) sia stato concepito dall'autore come una risposta al Sessantotto, e constituisse un salto verso la sua tesi sull'autonomia del politico. Di fatto, anche nelle trattazioni dell'operaismo pubblicate da figure in grado di leggere le opere italiane in lingua originale, come Harry Cleaver negli Stati Uniti e Steve Wright in Australia, il leninismo di Tronti è forse risultato meno evidente ai lettori anglofoni che ai lettori italiani.

Ci sono due possibili spiegazioni di questa recezione che enfatizzava il rifiuto del lavoro e il primato della lotta operaia sul capitale piuttosto che l'organizzazione partitica: da un lato il fatto che le traduzioni vengono pubblicato dopo l'esperienza del Sessantotto, dall'altro la diffusione del postfordismo, ben più rapida nei paesi avanzati del mondo anglofono che in Italia.

Non che in Operai e capitale non fosse evidente lo scarto tra la strategia di rifiuto e la richiesta del potere del partito. È infatti proprio questa distanza a spingere Tronti ad argomentare che il marxismo non ha mai avuto una teoria adeguata dello Stato, e perciò a indurlo a immettere nella sua analisi Carl Schmitt, definito da JacobTaubes come «l'unico antileninista di rilievo». Da qui si dispiegano anche i discorsi sulla «rude razza pagana» e la lucidità con cui Tronti scrive della sconfitta del movimento operaio dopo l'89. Non c'è dubbio che questa sua grande negatività produca una capacità d'analisi estremamente incisiva e fornisca una fonte di ispirazione per quanti non si lasciano ancor aconvincere dall'ugualmente forte spinozismo rivoluzionario di Impero di Michael Hardt e Toni Negri. Infatti è la ricerca diuna tradizione dell'operaismo alternativa a quest'ultimo che di recente ha spinto alcuni giovani pensatori di lingua inglese a rileggere il primo Tronti (vedi il 'blogweave' organizzato da Angela Mitropoulos sul blog Long Sunday).

Tuttavia io ritengo che sia un errore leggere Tronti contro Negri. Più urgenti sono il tentativo di capire come il capitalismo sia cambiato grazie alla lotta operaia, e la sfidadi creare nuove forme di organizzazione con cui combatterlo. La domanda non è dove soggiornerebbero il Lenin e Marx di Tronti oggi (inCina o a Bangalore?), ma che fare nelle condizioni attuali di diffusa precarietà in cui il partito, il movimento operaio, la fabbrica e la strada non sono più l'architettura principale della communicazione e dell'organizzazione. Si tratta non solo dell'emergere della produzione in rete ma anche dei cambiamenti importanti nel modo in cui la politica viene organizzata. Lo spazio della politica non è più un laboratorio in cui si sperimenta (e dove la «normalità» della politica moderna gioca un ruolo di neutralità sul cui sfondo si possono controllare gli esiti dell'esperimento), ma un groviglio complesso in cui la posta in gioco è dare forma politica a diffuse esperienze spesso contingenti e contradditorie.

È un caso che l'Italia degli operaisti sia sempre stata concepita come laboratorio? Credo che questa metafora andrebbe archiviata. L'esperienza politica nell'era del postfordismo che stava emergendo quando il primoTronti fu tradotto in inglese, non è un esperimento ma un complesso di relazioni, mediazioni e affetti tramite cui l'ontologia della politica si rende evidente solo fenomenologicamente. Al tempo stesso, l'ultimo Tronti - una voce che si leva dalla modernità per criticare duramente i tentativi postmoderni di «organizzare gli inorganizzabili» - non è uno spettro derridiano. È una voce inattuale che vale la pena di ascoltare attualmente, non per entrare nella melanconia di una sinistra che non sa come elaborare il lutto di ciò che è stata, ma per spingere l'organizzazione politica contro il suo zoccolo più duro, per rendersi conto che la sola azione politica su cui valga la pena di riflettere oggi è quella concepita non con la convinzione che Tronti ha ragione ma con la forza di agire come se avesse ragione.