Friday, September 28, 2007

orgnets Beijing


‘Non sono qui per ragioni di lavoro, ma devo dire che guadagno molto di più che in Europa’. Lo ammette Bert de Muynck, giovane architetto belga e denizen da quasi un’ anno nel quartiere Gu Xiang Don Chen: è uno degli organizzatori, insieme al teorico dei media australiano Ned Rossiter e alla giovane architetta di Lisbona Mónica Carriço, del Mobile Research Laboratory sulle Industrie Creative a Pechino 2007 (http://www.orgnets.net). Nell’ultimo scorcio di questo decennio il capitale cinese è diventato una destinazione per giovani europei in fuga dalla precarietà. Spalla a spalla con nord-americani e con quei cinesi che riescono a parlare l’inglese globale, una lingua che si relativizza nel contesto del mandarino, tutti si ridefiniscono nella transizione urbana pechinese. Quella che lavorava gratis a Milano qui apre una galleria d’arte, quello che cercava un tirocinio in uno studio d’architettura a Berlino si trova a progettare grattacieli. La città stessa è in metamorfosi. È come un immenso cantiere in cui i processi astratti della finanza globale si materializzano in una miriade di progetti immobiliari, spesso costruiti solo a metà o vuoti a distanza di un paio di anni dal loro compimento. Le più impressionanti tra queste strutture sono le torri metà finite del palazzo CCTV di Rem Koolhaas, che dominano lo skyline e assomigliano alle due torri di New York dopo l’11 settembre.


Il Mobile Research Laboratory è nato come un tentativo di creare una cartografia alternativa di questa situazione, in particolare di quelle trasformazioni della città legate allo sforzo di promuovere le cosiddette industrie creative. Sono già stati recensiti su queste pagine i libri di Richard Florida, tra i più importanti autori nella diffusione globale del concetto di creative industries, nonché il convegno My Creativity organizzato a Amsterdam in 2006 con lo scopo di criticare questo stesso tentativo di porre la creatività al centro dello sviluppo capitalistico contemporaneo. Il Mobile Research Laboratory sposta questo progetto a Pechino, dove il governo cinese ha identificato nelle industrie creative uno dei settori più importanti per la crescita dell’economia. Già nei primi cinque anni di questo decennio alcuni quartieri ex-industriali della città sono emersi come nuovi palcoscenici del mondo dell’arte. Il più famoso si chiama Dashanzi o art zone 798: si tratta di un quartiere di ex-fabbriche costruito con l’aiuto degli architetti Bauhaus della DDR negli anni Cinquanta. Adesso 798 è la sede della Biennale di Pechino e di molte gallerie internazionali, fra cui la Galleria Continua di San Gimignano. Se questa specie di arts-led gentrification si accompagna alla trasformazione urbana di tante città occidentali nella fase di deindustrializzazione (si pensi per esempio all’ex-mattatoio del Testaccio di Roma), la differenza a Pechino è la cattura di questi processi da parte dello stato e lo sviluppo di una tecnica di governance che investe massicciamente sulla costruzione di altre creative business districts nel tessuto urbano.


Viaggiando nel nord-est della città, oltre il quinto raccordo anulare, si trova accanto al nuovo museo nazionale del film, uno dei tanti creative clusters in costruzione a Pechino, una ex-fabbrica in mezzo ai campi. Alcuni degli studi e gallerie sono già aperti, mentre il bar è ancora in allestimento. A fianco del cantiere si trovano le capanne degli operai che lavorano sul sito, tra i 140 milioni dell’esodo urbano dalle campagna cinesi, casette con i graffiti dei numeri di cellulare lasciati dagli agenti che vendono documenti di residenza, necessari per evitare lo sgombero. Non è un segreto che lo sviluppo cinese sia spinto da un basso costo del lavoro. Parlare del costo di lavoro però significa parlare dell’astrazione del lavoro vivo e materiale, un processo spesso dimenticato nella spettacolare materializzazione delle forze astratte della finanza globale nella città. Infatti la questione del lavoro, non solo dei migranti ma anche dei giovanni europei che lavorano nel settore creativo, è uno dei temi su cui si sofferma la ricerca del Mobile Laboratory.


Un altro tema su cui è impegnato il Laboratory (che sposta i suoi incontri fra musei, punk spaces che assomigliano a centri sociali, scuole di film e gli uffici della rivista Urban China) è quello di ecopolitica – in particolare la cosiddetta e-waste creata dall’infrastruttura del capitalismo cognitivo: computer e altro. A pochi minuti dal creative cluster del nordest si trova un recycling village, dove i migranti raccolgono pezzi di acciaio e legno per venderli al mercato dei materiali riciclati. La strategia di esteticizzare posti così – come succede nel film canadese di recente uscita Manufactured Landscapes – per stimolare il dibattito sul climate change è una dei progetti in discussione. Anche le dinamiche del mercato immobiliare a Pechino sono oggetto d’analisi – in particolare il loro legame con lo sviluppo dei creative districts. Con i recenti cambiamenti della legge sulla proprietà in Cina, con misure che stipulano che il 50% di ogni investimento deve provenire da una ditta cinese, il futuro del real estate boom cinese non è chiaro, anche perché queste dinamiche potrebbero essere influenzate dall’housing crash statutinense.


L’obiettivo del Mobile Laboratory non è solo di creare una contro-cartografia delle industrie creative a Pechino tramite un’indagine sui temi delle migrazioni, dell’ecopolitica e dei mercati. Il progetto intende così stabilire un prototipo per nuove istituzioni inter-culturali organizzate intorno alla logica del network. Così studenti e artisti cinesi lavorano insieme con ospiti (artisti, scrittori, attivisti) che arrivano da Europa, America, India e Australia, ciascuno per una o due settimane, con una sovrapposizione di due o tre giorni. È questo un tentativo di spostare la ricerca fuori dalle università e dai policy think tanks, aprendo l’orizzonte di una politica della traduzione che parte dal rifiuto della traduzione capitalistica che riduce tutto al valore del denaro. Al tempo stesso è un progetto che si confronta con la realtà cinese e con la sfida di una traduzione fra la politica radicale occidentale e la produzione di una nuova soggettività cinese che entra in traiettorie globali. Sullo sfondo si profila la possibilità di una nuova forma di relazione, non quella che nasce dalla condivisione di tradizioni e valori politici ma che si costruisce precisamente da differenze, tensioni e dispute, nonché dalla costruzione di una disposizione che permette di affrontare senza paura l’emergere della Cina.