Friday, September 28, 2007

orgnets Beijing


‘Non sono qui per ragioni di lavoro, ma devo dire che guadagno molto di più che in Europa’. Lo ammette Bert de Muynck, giovane architetto belga e denizen da quasi un’ anno nel quartiere Gu Xiang Don Chen: è uno degli organizzatori, insieme al teorico dei media australiano Ned Rossiter e alla giovane architetta di Lisbona Mónica Carriço, del Mobile Research Laboratory sulle Industrie Creative a Pechino 2007 (http://www.orgnets.net). Nell’ultimo scorcio di questo decennio il capitale cinese è diventato una destinazione per giovani europei in fuga dalla precarietà. Spalla a spalla con nord-americani e con quei cinesi che riescono a parlare l’inglese globale, una lingua che si relativizza nel contesto del mandarino, tutti si ridefiniscono nella transizione urbana pechinese. Quella che lavorava gratis a Milano qui apre una galleria d’arte, quello che cercava un tirocinio in uno studio d’architettura a Berlino si trova a progettare grattacieli. La città stessa è in metamorfosi. È come un immenso cantiere in cui i processi astratti della finanza globale si materializzano in una miriade di progetti immobiliari, spesso costruiti solo a metà o vuoti a distanza di un paio di anni dal loro compimento. Le più impressionanti tra queste strutture sono le torri metà finite del palazzo CCTV di Rem Koolhaas, che dominano lo skyline e assomigliano alle due torri di New York dopo l’11 settembre.


Il Mobile Research Laboratory è nato come un tentativo di creare una cartografia alternativa di questa situazione, in particolare di quelle trasformazioni della città legate allo sforzo di promuovere le cosiddette industrie creative. Sono già stati recensiti su queste pagine i libri di Richard Florida, tra i più importanti autori nella diffusione globale del concetto di creative industries, nonché il convegno My Creativity organizzato a Amsterdam in 2006 con lo scopo di criticare questo stesso tentativo di porre la creatività al centro dello sviluppo capitalistico contemporaneo. Il Mobile Research Laboratory sposta questo progetto a Pechino, dove il governo cinese ha identificato nelle industrie creative uno dei settori più importanti per la crescita dell’economia. Già nei primi cinque anni di questo decennio alcuni quartieri ex-industriali della città sono emersi come nuovi palcoscenici del mondo dell’arte. Il più famoso si chiama Dashanzi o art zone 798: si tratta di un quartiere di ex-fabbriche costruito con l’aiuto degli architetti Bauhaus della DDR negli anni Cinquanta. Adesso 798 è la sede della Biennale di Pechino e di molte gallerie internazionali, fra cui la Galleria Continua di San Gimignano. Se questa specie di arts-led gentrification si accompagna alla trasformazione urbana di tante città occidentali nella fase di deindustrializzazione (si pensi per esempio all’ex-mattatoio del Testaccio di Roma), la differenza a Pechino è la cattura di questi processi da parte dello stato e lo sviluppo di una tecnica di governance che investe massicciamente sulla costruzione di altre creative business districts nel tessuto urbano.


Viaggiando nel nord-est della città, oltre il quinto raccordo anulare, si trova accanto al nuovo museo nazionale del film, uno dei tanti creative clusters in costruzione a Pechino, una ex-fabbrica in mezzo ai campi. Alcuni degli studi e gallerie sono già aperti, mentre il bar è ancora in allestimento. A fianco del cantiere si trovano le capanne degli operai che lavorano sul sito, tra i 140 milioni dell’esodo urbano dalle campagna cinesi, casette con i graffiti dei numeri di cellulare lasciati dagli agenti che vendono documenti di residenza, necessari per evitare lo sgombero. Non è un segreto che lo sviluppo cinese sia spinto da un basso costo del lavoro. Parlare del costo di lavoro però significa parlare dell’astrazione del lavoro vivo e materiale, un processo spesso dimenticato nella spettacolare materializzazione delle forze astratte della finanza globale nella città. Infatti la questione del lavoro, non solo dei migranti ma anche dei giovanni europei che lavorano nel settore creativo, è uno dei temi su cui si sofferma la ricerca del Mobile Laboratory.


Un altro tema su cui è impegnato il Laboratory (che sposta i suoi incontri fra musei, punk spaces che assomigliano a centri sociali, scuole di film e gli uffici della rivista Urban China) è quello di ecopolitica – in particolare la cosiddetta e-waste creata dall’infrastruttura del capitalismo cognitivo: computer e altro. A pochi minuti dal creative cluster del nordest si trova un recycling village, dove i migranti raccolgono pezzi di acciaio e legno per venderli al mercato dei materiali riciclati. La strategia di esteticizzare posti così – come succede nel film canadese di recente uscita Manufactured Landscapes – per stimolare il dibattito sul climate change è una dei progetti in discussione. Anche le dinamiche del mercato immobiliare a Pechino sono oggetto d’analisi – in particolare il loro legame con lo sviluppo dei creative districts. Con i recenti cambiamenti della legge sulla proprietà in Cina, con misure che stipulano che il 50% di ogni investimento deve provenire da una ditta cinese, il futuro del real estate boom cinese non è chiaro, anche perché queste dinamiche potrebbero essere influenzate dall’housing crash statutinense.


L’obiettivo del Mobile Laboratory non è solo di creare una contro-cartografia delle industrie creative a Pechino tramite un’indagine sui temi delle migrazioni, dell’ecopolitica e dei mercati. Il progetto intende così stabilire un prototipo per nuove istituzioni inter-culturali organizzate intorno alla logica del network. Così studenti e artisti cinesi lavorano insieme con ospiti (artisti, scrittori, attivisti) che arrivano da Europa, America, India e Australia, ciascuno per una o due settimane, con una sovrapposizione di due o tre giorni. È questo un tentativo di spostare la ricerca fuori dalle università e dai policy think tanks, aprendo l’orizzonte di una politica della traduzione che parte dal rifiuto della traduzione capitalistica che riduce tutto al valore del denaro. Al tempo stesso è un progetto che si confronta con la realtà cinese e con la sfida di una traduzione fra la politica radicale occidentale e la produzione di una nuova soggettività cinese che entra in traiettorie globali. Sullo sfondo si profila la possibilità di una nuova forma di relazione, non quella che nasce dalla condivisione di tradizioni e valori politici ma che si costruisce precisamente da differenze, tensioni e dispute, nonché dalla costruzione di una disposizione che permette di affrontare senza paura l’emergere della Cina.

Friday, July 06, 2007

The Magic of Debt, or, Amortise This!


http://www.metamute.org/en/The-Magic-of-Debt-or-Amortise-This


For Nietzsche, debt was linked to the problem of promising and forgetting. It would be a mistake to underestimate the importance of the etymological play that underlies his association of debts (Schulden) with guilt (Schuld). As is well known, the Second Essay of On the Genealogy of Morals argues that the feeling of guilt, of personal obligation, has its origin in the contractual relationship between creditor and debtor. ‘It was here’, Nietzsche writes, ‘that one person first measured himself against another’. And he continues:

Perhaps our word ‘man’ (manas) still expresses something of precisely this feeling of self-satisfaction: man designated himself as the creature that measures values, evaluates and measures, as the ‘valuating animal as such’.[1]

How today are we to understand these claims and Nietzsche’s extension of them into arguments about the role of debt in the relations between parents and children or between man and the deity? To put the matter bluntly, in today’s highly abstracted global economy, the link between debt and guilt has been broken. Or more precisely, with the emergence of debt as a structural necessity in the lives of most people around the world, the relation between debt and guilt has been reversed. In the context of credit ratings, negative gearing, hedge funds and micro-credit, one is guilty if one is not in debt!

This is not simply a matter of social control, although certainly the will-to-indebtedness inserts the subject in a complex matrix of databases. Debt and payback, borrowing and amortisation, also imply a certain rhythm, an obsessive sequencing that measures itself against the pace of life. ‘The rate of interest’, as economist John R. Hicks wrote, ‘is the price of time’.[2] Nobody ever hears the death (mort) in mortgage, but surely it is there.

To say that debt inheres in life is not merely to repeat the current biopolitical orthodoxies. ‘From the moment I was born/I opened my eyes/I reached for my credit card’.[3] The opening lines from The Gang of Four’s 1982 track ‘Capital (It Fails Us Now)’ make us realise that our dependency on debt has only deepened since 1958, when, in a classic article, Paul Samuelson declared that the social state only balances its books by ‘a draft on the yet-unborn’.[4] Now debt has become the dominant mode of subjectivity, even in its pre-oedipal or anti-oedipal moments.

The retreat from the social state has only extended the draft on the yet-unborn. Non-reproduction of infrastructures, selling off of public assets, even selling future returns on government loans to the private sector: all are means of selling the future to pay for the present. Indeed, the market for the future has become perhaps the most abstracted and self-referential of all financial systems, with speculative instruments, such as derivatives, punctuating the temporality implicit in their underlying assets to create a meta-temporal sphere of circulation in which the risk of anything, bar catastrophe, can supposedly be managed.

Let us call it the post-Fordist moment, the moment of the full sovereignty of global finance capital: that is the time in which the ‘enchanter’s wand’ of debt, to recall a phrase from Marx’s chapter on ‘So-Called Primitive Accumulation’, casts a spell that converts the un-bankable into the pre-bankable. Debt spreads its blanket, incorporating ever more subjects into the abstraction of the global financial system. The devices of micro-credit, for instance, register the uneven but universal spectrum of debt. Everyone can have it. But the post-Fordist moment is not only that of global financial expansion. It is also the moment in which debt attempts to conjure away labour as the wellspring of value, allowing value to enter, as Marx would write elsewhere in Capital Vol.1, ‘into a private relation with itself’.[5]

To think of man as the ‘valuating animal’ is to add a transhistorical sense to this moment. For Nietzsche, who more famously defined man as the ‘incomplete animal’, this is at once a measure of despair and a call for ‘an instinctive creation and imposition of forms’. It is not a matter of positing a political essence to man, the zoon politikon, and then declaring this figure to have been defeated by homo economicus. The ‘legal conditions’ that seal the contractual relationship between debtor and creditor, Nietzsche explains, ‘can never be other than exceptional conditions’. This is because a ‘legal order thought of as sovereign and universal’ serves ‘not as a means in the struggle between power complexes but as a means of preventing all struggle in general’. The contract model of exchange is essentially ‘hostile to life’, an ‘attempt to assassinate the future of man’, and thus a ‘secret path to nothingness’.[6]

What then becomes of struggle at the present time in which the legal order can no longer establish itself as sovereign, even under exceptional conditions? How to situate debt at a time in which ‘public opinion’ and notions of the ethically right replace formal law and its institutions as the basis of legitimacy, measured out by so many polls and rating scales, often seeking to measure the quality of life (which is really nothing other than the secularised version of the sanctity of life)? Under these circumstances, it is necessary to ask again what debt accomplishes, what it does. And again it is Marx who describes most accurately the magic of debt.

As with the stroke of an enchanter’s wand, it endows barren money with the power of breeding and thus turns it into capital, without the necessity of its exposing itself to the troubles and risks inseparable from its employment in industry or even in usury.[7]

It is significant that Marx makes these observations about debt in the context of his analysis of primitive accumulation. At stake here is not simply the matter of credit being drawn from unpaid labour, theft, colonisation and so on. Nor is it the whole question of accumulated money capital being used for industrial investment, which he had dealt with in his earlier criticisms of the French Crédit Moblier. In this instance, Marx draws attention to what has become one of the most powerful levers of capitalist control today – the institution of public debt. Capitalists loan money to the state to finance expenses over and above state revenues and then the state pays back the money at interest with new money acquired through taxation. The point is that money is turned into capital by augmenting itself, and, in this sense, the process of accumulation by means of debt is not analysed that much in the rest of Capital.

The magic of debt is to make labour disappear. It is here that the analysis of debt must begin and end, particularly in the context of current finance capital. At stake is not only the issue of the so-called debt crisis, created by the making of international loans to the governments of poor countries, which can only finance repayments by borrowing more when interest rates go up or exchange rates are unfavourable. Nor is the question solely about what Michael Hudson has called ‘superimperialism’ – the process by which the United States has maintained its global economic power by becoming indebted to foreign nations, which are then compelled to keep US treasury bills in their central banks.[8] These are crucial matters that shape much of the world’s economic activity through debt. But they do not capture the magic of debt, its capacity to perform vanishing tricks, most specifically on the living labour that drives this same global economy.

This is where the inherence of debt in life meets the abstract functioning of contemporary finance capitalism – in the fiction of value without labour. In the classic Fordist economy, it was the value of fixed capital (e.g. factory machinery) that could not be generated by labour, or, at least, that part of the value of fixed capital consumed in the process of production could not be created by the living labour engaged in this same productive activity. This is why Marx claimed that the amortisation of fixed capital could not be explained by the labour theory of value. If this were the case, he surmised, the value of such fixed capital would have to be produced twice: first, when it was initially produced (in the factory manufacturing the factory machinery that would itself become fixed capital); and second, during its use in the manufacturing process. Fixed capital must thus be approached by the capitalist as an effective debt. As it is incapable of producing surplus value through the production process during which its own value is consumed, it becomes a cost to be amortised as quickly as possible.

As Christian Marazzi argues, with the advent of post-Fordism, the place of the machine as fixed capital in the factory has been substituted with the worker’s body itself:

The dematerialisation of fixed capital and service-products has as its concrete correspondent the ‘putting to work’ of human faculties such as the linguistic-communicative and relational capacities, the competencies and contacts acquired in the workplace and, above all, those accumulated in the non-work environment (knowledge, emotions, versatility, reactivity, etc.) – in short, the combination of human faculties, which interacting with autonomised and informatised systems of production, are directly productive of value-added. In the model of the ‘production of man through man’, fixed capital, if it disappears in its material and fixed form, reappears in the mobile and fluid form of the living. (my translation)[9]

It is in this mobile and living form that debt inheres. As fixed capital, the body of the worker is a cost to be amortised as quickly as possible. Thus, while in Fordism, the state or the firm would step in to assist in the maintenance of the worker’s body (through health benefits, educations, pensions, housing and the like), in post-Fordism, these costs are devolved as much as possible to the worker, who must provide for him or herself in the context of a globalised marketplace.

Hence, for instance, the shift from state-funded to market-driven pensions – with the accompanying fantasy of generating income for later life driving all sorts of financial manipulations, including the taking on of debt for investment in risky assets or conversely the drawing back on pension funds to shoulder the debt burden generated by housing and other investments.

To register the centrality of debt to these developments is in no way to license nostalgia for the social state. Rather it is to mark the necessity of critically analysing these moments, to confront and act on the present with all its contingencies. For Werner Hamacher, the ‘lapidary’ contraction of Marx’s general formula for value, (M – C – M′) money begets commodities beget more money, to (M - M′) money begets more money, achieved through the magic of debt, generates the formula of an ‘automatic subject’ which, like the ‘generation of God out of nothing’, betrays ‘capital’s faith in capital itself’.[10] In this reading, which follows Nietzsche’s diagnosis of the Christian sacrifice as God making a ‘payment to himself’, there emerges the horizon of a maxima culpa, a debt that can never be repaid.

There is something in this moment of reversal, in which, to recall Nietzsche’s words again, ‘the creditor sacrifices himself for his debtor’, that registers the current realignment of debt and guilt in global finance capitalism. Yet the notion of a maxima culpa, guilt before God, does not capture the current absolution of debt from guilt. For what is unbearable about debt is certainly not that it can’t be repaid. Today, debt has no original sin. Instead of a maxima culpa, we face what might be called the minima moralia of debt. Loans are assumed not with the intention to repay but to refinance. Only the debt that cannot and will not be acquitted absolves us.

Thus, the good citizen, whether he or she is an individual in a nation-state or a nation-state in the so-called ‘international community’, is an indebted subject. Indeed, debt insinuates itself in the very oscillation between citizen and subject. Consider, for instance, the April 2005 proposal of the Australian Prime Minister, who suggested that the problems of health and squalor in indigenous communities might be redressed by obliging Aboriginals to take out mortgages for homeownership:

I certainly believe that all Australians should be able to aspire to owning their own home and having their own business; having title to something is the key to your sense of individuality, it's the key to your capacity to achieve, and to care for your family and I don't believe that indigenous Australians should be treated differently in this respect.[11]

Debt here is the basis not only of individuality but also of citizenship, something that ‘all Australians should be able to aspire to’. And, in this sense, debt also imposes a kind of border, controlled by the device of the credit rating, which importantly is heightened not through the avoidance or refusal of debt but rather through the faithful repayment of that which will never be repaid. To cross the border established by debt, to bear the unbearability of debt, is to become a full member of the polity. To be in debt is not necessarily to own, but it is to belong.

‘It is even part of my good fortune not to be a home owner’, wrote Nietzsche in The Gay Science.[12] Adorno remembers this in Minima Moralia: ‘Today we should have to add: it is part of morality not to be at home in one’s home’.[13] In the current moment of financialisation, it is perhaps necessary to go beyond this ethical preoccupation. Today we should have to add: it is part of politics not to be at home in the oikos. It is not a matter of finding the great outside to debt, as if one could heed Nietzsche’s injunction to exist beyond, above or untouched by debt. Rather it is a matter of living despite debt – of refusing its time, its subjectivation, its measure. And this means unmasking the magic of debt, its smoke and mirrors. It means the invention of a politics in which labour reappears.

FOOTNOTES:

[1] Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morals and Ecce Homo. New York: Vintage Books, 1969, p.70.

[2] John R. Hicks, Value and Capital, Oxford, Clarendon Press, 1939.

[3] Gang of Four, ‘Capital (It Fails Us Now)’, Another Day, Another Dollar. Warner, 1982.

[4] Paul Samuelson, ‘An Exact Consumption-Loan Model of Interest with or without the Social Contrivance of Money’, The Journal of Political Economy 66, 1958, p.480.

[5] Karl Marx, Capital Vol 1. Chicago, Charles H. Kerr and Co, 1906. Available from: http://www.econlib.org/library/YPDBooks/Marx/mrxCpA4.html

[6] Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morals and Ecce Homo. New York: Vintage Books, 1969, p.76.

[7] Karl Marx, ibid, chapter 31: http://www.econlib.org/library/YPDBooks/Marx/mrxCpA31.html

[8] Paul Samuelson, ‘An Exact Consumption-Loan Model of Interest with or without the Social Contrivance of Money’, The Journal of Political Economy 66, 1958, p.480.

[9] Christian Marazzi, ‘Ammortamento del corpo macchina’, in Jean-Louis Lavalle et al., eds. Reinventare il Lavoro, Roma, Angelo Ruggieri, 2005, p.111.

[10] Werner Hamacher, ‘Guilt History: Benjamin’s Sketch “Capitalism as History”’, Diacritics 32, 2002, p.92.

[11] John Howard, ‘Doorstop Interview, Wadeye, Northern Territory’, http://www.pm.gov.au/media/interview/2005/Interview1305.cfm

[12] Friedrich Nietzsche, The Gay Science, New York: Vintage Books, 1974.

[13] Theodor Adorno, Minima Moralia: Reflections on a Damaged Life, London, Verso, 1997, p.38-39.

Thursday, June 07, 2007

From castrum to cluster


The following is a transcript of a talk I did at LAb0 (Laboratory for Architecture and Politics) on 10 May. The panel was entitled 'Mutations of the University' and the other participants were Gigi Roggero and David Fanfani. Video and audio are available on the LAb0 site. The talk took place in the former abattoir (pictured above) in the Roman quartiere of Testaccio. It was strangely wonderful to speak in a long room still contataining the machinery and hooks from which the carcases once hung. Although somewhat unsurprisingly the site now houses an architecture school and a museum of contemporary art (MACRO).
Gli edifici che costituiscono il campus dove insegno in Australia, sono uno un ex carcere minorile, l’altro un ex orfanotrofio femminile; da una specie di castrum in cui erano imprigionati ragazzi, ora nelle stesse strutture ragazzi più o meno della stessa età ricevono formazione. Rispetto alle tendenze della New York University, dove possiamo leggere la tendenza di una università nel suo divenire metropoli, a Sidney l’università occupa posti decentralizzati dal centro della città: è la cosiddetta università dell’autostrada con gli edifici universitari costituiti da immensi parcheggi; un ex carcere ed un ex orfanotrofio circondati da immensi parcheggi.
Quando parliamo del passaggio dal castrum a cluster, facciamo un passaggio da una parola latina ad una di lingua inglese, parola che ho cominciato a sentire usare in modo massiccio dalla metà degli anni novanta. La nascita di questa parola la possiamo collocare nell’Inghilterra dei creative cluster, delle iniziative a livello urbanistico di creazione di cluster, di cui parla anche Richard Florida, che consistono in pratiche di rinnovo dei quartieri della città. Ci sono studi molto interessanti su questo fenomeno, che implica spostamenti di persone, abitanti storici della zona.
È quello che possiamo chiamare gentrification, tema centrale nella geografia urbana degli anni 80. Anche in una città come Pechino oggi lo si vede bene: una metropoli cha ha la tendenza verso il rafforzamento delle industrie creative in cui si vedono interi quartieri, dove sono cresciute iniziative autonome di studenti e artisti, che oggi sono catturati e sviluppati dallo stesso governo per creare un incubatore delle creative cluster a cui si accompagna lo spostamento della popolazione storica in altre zone.
La parola cluster è emersa negli anni novanta all’interno delle università con l’obbiettivo di costruire cluster di ricerca dentro l’università, ovvero gruppi di ricerca interdisciplinari con docenti e studenti da vari dipartimenti. Questa tendenza è corollario della introduzione della misura del lavoro cognitivo e del bisogno per l’università di scegliere zone di specializzazione per trovare nicchie dove vendere brand di ricerca, fatta dentro l’università, nel mercato globale.
Questo processo di clusterizzazione è correlato ad un processo di gerarchizzazione fra ricerca ed insegnamento. Con l’emergere di un cluster infatti l’università concentra lo sforzo di ricerca in una certa parte dell’università che diventa una sorta di elite mentre il resto della facoltà diventa una specie di fabbrica dell’insegnamento. Con i cluster della ricerca emerge la gerarchizzazione dell’università fra quelli che fanno ricerca, pochi e stabili, e quelli che fanno l’insegnamento.
Ma ci sono altri usi della parola cluster soprattutto nei discorsi militari: ad esempio cluster bomb, le bombe a grappolo, tecnica militare usate tanto in Iraq quanto in Afghanistan. Il movimento dal castrum, termine militare romano, al cluster, non significa una specie di movimento soft delle pratiche: tutte e due sono infatti termini militari, e su questo aspetto vorrei soffermarmi.
Un aspetto importante nella trasformazione che possiamo osservare oggi non è solo tendenza verso la progressiva flessibilizzazione dei processi produttivi poiché anche la militarizzazione rientra nel contesto produttivo universitario.
Nella lista di edu-factory Brian Holmes, americano che vive a Parigi, ha scritto un saggio sul famoso triangolo della ricerca del North Carolina. Anche il collettivo countercartographies.org ha disegnato una sorta di creative cluster composto da tre università: Duke University, University of North Carolina e University of the State North Carolina. Si tratta di un ambiente dove ci sono molte software house impegnate nella industria bellica. Inoltre vi è un sistema di contratti dove la stessa università contribuisce nell’avanzamento delle tecnologie belliche. Siamo di fronte a processi di capitalizzazione, flessibilizzazione e contemporaneamente di militarizzazione. Queste tre tendenze devono essere tenute tutte e tre contemporaneamente assieme, in quanto reciprocamente implicate tra loro.
Le università americane sono rette di fatto oggi da sistemi fiscali di sussidiarietà: questo vuol dire che i ricavi di un settore interno dell’università può essere ridistribuita internamente per finanziare altri settori di prestigio, come filosofia o letteratura che non riescono ad operare in un sistema di mercato e generare guadagni o fare profitto.
Tale sistema di sussidiarietà funziona a livello globale con i profitti guadagnati all’estero che vengono a loro volta usati per finanziare parte dell’università a livello locale: questo è uno dei motivi, tra gli altri, per cui i campus sono aperti offshore.
Proprio per questo è stato introdotto un sistema di sussidiarietà a livello globale, come possiamo vedere con l’università di Harvard quando stabilisce sedi proprie in India o in Cina (L’università di Nottingam ha fatto un proprio campus in Cina, che è una replica esatta del campus inglese: un clone che ne rispecchia anche la posizione fisica degli edifici; una specie di disneland che è al tempo stesso uno sviluppo serio per sfruttare tutte le opportunità del mercato della formazione in Cina).
In questo meccanismo di sussidiarietà anche lo studente che fa il lavoro critico è direttamente coinvolto nella tendenza di militarizzazione delle università.
Si tratta non solo di chi fa ricerca balistica o biologia, poiché questa logica è investita da una tendenza più generale della ricerca dentro l’università attraverso la logica della sicurezza e così via. Penso del campo della sanità pubblica: il modo più efficace di ottenere finanziamenti per la ricerca nel campo generale della sanità pubblica è quello della sicurezza, della bioguerra per tirare fondi e fare ricerca. Se tu hai voglia di fare ricerca nel campo della sanità, vieni allora direttamente coinvolto nella sua militarizzazione.
In Australia abbiamo avuto modo di discutere in gruppi politici radicali il caso del gruppo Australian Research Council che ha finanziato varie reti di eccellenza tra cui una che si chiama Secure Australia (si tratta del Research Network for a Secure Australia); in questa rete si trova tanta gente disponibile a fare ricerca sulla biometria e nuove tecnologie di controllo dei confini, per reagire ad un attacco biologico. Questo per prendere i fondi dal governo per assicurarsi così un percorso, una carriera nella stessa università. In un’università dove tutti i ricercatori sono precari e sono sempre alla ricerca della prossima borsa di studio, quest’ultima ti viene concessa solo quando fai ricerca in questi campi.
Abbiamo avuto, con il mio gruppo, la proposta di dirigere questa rete di eccellenza e abbiamo suggerito di contestare questi sbocchi dei finanziamenti ma, come strategia politica, è stata davvero poco seguita poiché solo pochi vogliono rischiare di perdere la chance di ricevere fondi di ricerca dal governo, seppure poi fanno ricerca in un altro campo. Per la maggioranza dei ricercatori precari non vale la pena contestare la network Secure Australia perché ciò metterebbe a rischio la possibilità stessa di ricevere fondi per altri progetti in altri campi.
Le strategie e le tecnologie su cui si fanno ricerca nei progetti della network Secure Australia funzionano in modo completamente diverso dal classico modello del Panopticon: si tratta più che altro di una sorta di embedded software che stanno sviluppando, in cui chi è controllato da questo software non è necessario che realizzi di essere controllato, mentre nel modello del Panopticon il soggetto sa di essere sorvegliato. Il sistema di video-sorveglianza funziona in modo tale che il crimine sa che non può fare una illegalità nel centro della piazza ma che deve andare dietro l’angolo, per esempio. Nei sistemi di controllo contemporaneo i funzionamenti sono cambiati. Ti faccio un esempio.
Quando tu vai sul sito amazon.com per finire il saggio per il tuo corso che devi tenere il giorno dopo e devi fare la bibliografia dei libri e utilizzi quindi il sito non per comprare, amazon.com ha un sistema software che riesce a riconoscere il tuo indirizzo ip e capisce se tu sei quello che compra o che usa il sito per non comprare ma per fare solo la bibliografia. Così se non compri il tuo accesso alla informazione del sito sarà più lento rispetto a quello che compra. Ma quando vai sul sito non sei informato di questo funzionamento: non te ne accorgi di essere controllato, non ti accorgi che il tuo accesso è più lento di quello che usa la sua carta di credito.
Un altro esempio. Da casa mia per l’università in macchina ci vogliono 50 minuti. In macchina devi fare delle autostrade con il sistema viacard, dove ti puoi muovere con un clic, con un cip che contiene anche i dettagli della tua carta di credito e del tuo conto bancario.
Ma per fare un tratto del percorso c’è un tratto di autostrada a cui non hai accesso senza questo apparecchio in macchina. Non lo puoi fare se non hai una carta di credito, con tutte le informazioni che hai nella carta: se paghi il mutuo della casa, i tuoi debiti da pagare, tutti questi dati legati al numero della tua carta di credito legati e accessibili nel passaggio di accesso dell’autostrada.
Un sistema di controllare dunque che accumula saperi di chi usa l’autostrada, per sapere inoltre quanto essa è trafficata e regolarne l’accesso, dove il flusso di traffico è controllato con un sistema di cui il soggetto controllato non sa di esserlo.
Come si gestisce una lotta in questo sistema? Mi ricordo quel famoso libro di Michel de Certeau, tradotto in inglese The Pratice of Everyday Life, in cui tale autore mostra la distinzione e il contrasto fra quello che dal grattacielo guarda la città con l’occhio di uccello e quello che attraversa la città e la gusta nella vita quotidiana: due diverse prospettive dove l’una è il punto di vista della politica della strategia e l’altro il punto di vista della tattica.
Ma oggi non c’è più questa separazione tra strategia o tattica, questa distinzione politica fra cosa è strategia e cosa è tattica: credo che oggi ci muoviamo verso una situazione dove questa distinzione viene decostruita, e dobbiamo ripensare allora a come fare pratica politica quando non è più richiesto che tu sia informato del completo sistema di controllo a cui sei di fatto sottomesso.
Quello detto fino ad ora entra nel contesto della guerra, di una guerra attuale dove non vi è più molta distinzione tra la polizia e l’apparato militare, una guerra fatta non più fra Stati ma attraverso una privatizzazione fatta di mercenari: questo è il modo in cui la guerra si dispiega nelle metropoli. Sappiamo infatti che la guerra urbana in Iraq è una guerra difficile, e che le tecniche che la sviluppano nascono dai tecnici non militari, ma della polizia di Los Angeles che sviluppa i sistemi basandosi direttamente sugli scontri metropolitani. Questi saperi di guerra possono essere allora connessi anche ai tentativi di sgomberare un centro sociale.
È una situazione in cui diventa difficile esprimere i conflitti in cui tu sei coinvolto. Cosa fare?
Ned Rossiter fa una distinzione fra organizzazione reticolare e rete organizzata. Una organizzazione reticolare è per esempio l’università nel suo farsi rete nel tessuto urbano.
Rete organizzata sarebbe un’altra specie di organizzazione, potrebbe essere una nova forma di istituzione, una nuova forma istituzionale che agisce conflittualmente; il problema allora è come espandere un tale progetto. Qui si entra in un territorio difficile. Nel mondo in cui viviamo occorrono fondi per organizzarsi. E quando tocchiamo questo livello entriamo, nel mondo universitario, nel dilemma del ricercatore che ho accennato che prende i fondo di sicurezza ad esempio dell’Australia per la propria borsa di studio.

Dove si prendono i fondi? Una possibilità che abbiamo esplorato in Australia con un gruppo di ricercatori è stato l’esperimento di costruire una rete organizzata fuori dall’università per progettare corsi di autoformazione e vendere successivamente questi stessi corsi all’università che cerca materiali già sviluppati per finanziare le proprie ricerche. Ma questo è solo un esperimento, un territorio molto complesso, poiché non c’è più un fuori e si arriva ad un punto dove l’autoformazione entra nella nicchia del mercato. Ma ciò rimanda al problema che dobbiamo porci: come costruire rete organizzata contro le organizzazioni reticolari, oggi.

Wednesday, May 30, 2007

A Mobile Cartography of the Knowledge Factory


I conducted the following interview with Ranabir Samaddar of the Calcutta Research Group at the Global Meeting in Venice at the end of March 2007. The interview, which was transcribed and translated by Gigi Roggero, was published in Il Manifesto, on 23 May. The conversation with Ranabir is also available as a video download on the edu-factory site, along with two other interviews with Wang Hui of Tsinghua University, Beijing and Stanley Aronowtiz of the City University of New York.

E in Italia ha preso il via l'esperienza di «Edu-factory», discussione on line sul «mercato della formazione» con il coinvolgimento di docenti, ricercatori e studenti a livello mondiale La globalizzazione cambia la mappa e le gerarchie nella produzione di conoscenza e sapere. Un'intervista con lo studioso indiano Ranabir Samaddar.


Non sono pochi gli studiosi che stigmatizzano le analisi sul lavoro cognitivo e sulla centralità della produzione di saperi come eurocentriche, in quanto non terrebbero in considerazione la maggior parte delle aree del pianeta. Ma proprio in questa critica alligna il frutto avvelenato di una visione eurocentrica, che relega i paesi di quello che veniva chiamato Sud del mondo a mera riserva di manodopera e spazio per una brutale accumulazione primitiva di capitale, privando così i conflitti e le pratiche di resistenza di voce e radicalità.

Rovesciare l'eurocentrismo significa allora spiazzarne la prospettiva, situando ad esempio in India il punto di osservazione del capitalismo cognitivo e del mercato globale con il fine di disegnare una mappa delle gerarchie relative alla produzione dei saperi. Una mappa, tuttavia, che non corrisponde più alla tradizionale immagine della divisione internazionale del lavoro e nella quale le singole aree metropolitane sono spazi immediatamente globali. Da qui l'emergere di elementi comuni tra le trasformazioni dell'università e delle lotte che hanno attraversato l'Europa negli ultimi due anni (dall'Italia alla Francia alla Grecia) e quelle che stanno mutando il volto del sistema formativo in Asia. Ed è attorno al rapporto tra globalizzazione e università che comincia l'intervista a Ranabir Samaddar, attento critico dell'India contemporanea, in Italia su invito di alcune università italiane.

Dopo una lunga fase in cui gli indiani andavano a studiare all'estero, in particolare nelle università americane e inglesi, ora il trend sembrerebbe essere cambiato. Qual è la posizione dell'India a livello globale nel campo della formazione?

Nell'obiettivo di produrre una knowledge class possiamo individuare due aspetti che hanno molto a che fare con il sistema delle caste che regola la vita sociale indiana. Da una parte, c'è la casta più alta, da sempre depositaria del sapere. Possiamo dunque dire che l'idea di una società diretta da una knowledge class è una vecchia idea in India. Il secondo aspetto è che gli inglesi hanno distrutto il sistema di formazione tradizionale con la presidency university, cioè le «università di élite» del paese. Questo non ha però cancellato una tradizione molto antica: quando hanno potuto, gli indiani hanno sempre mandato i loro figli a studiare all'estero. Con l'indipendenza, l'India non ha però imboccato la strada di quelle che sono state spregiativamente chiamata le Banana Republic dell'Africa o del sud-est asiatico, favorendo la crescita di un ceto medio caratterizzato dalla presenza di tecnici, medici, ingegneri, avvocati.

È possibile parlare di una tendenza all'università di massa in India? Inoltre: quali sono gli effetti delle trasformazioni dell'università sulla composizione sociale, sul mercato del lavoro e sui processi di sviluppo economico?

È difficile in India parlare di università di massa. Attualmente, assistiamo semmai al processo opposto, attraverso la formazione di poli d'eccellenza. Negli anni Sessanta la lotta contro le caste dei dalit (una delle caste più in basso nella scala sociale, n.d.r.) ha certamente determinato un'apertura del sistema formativo paragonabile a ciò che è successo negli Stati Uniti con il movimento per i diritti civili. Dunque, un aumento delle possibilità di accesso all'università c'è stato, seppur contraddittorio e con forti squilibri regionali e sociali. Abbiamo quindi un funzionamento della formazione università con una sua specificità, che condiziona e che, a sua volta, viene condizionata dai processi della globalizzazione.

Nel 2001, c'è stata una sentenza della corte suprema di considerare un diritto alla mensa per tutti i bambini che vanno a scuola, una disposizione applicata dal governo del Bengala occidentale nel 2004. Da quel momento i bambini della casta bassa mangiano alla stessa tavola dei bambini della casta più alta. Prima nelle scuole avevamo quella che si può chiamare uguaglianza pubblica, ma adesso i bambini sono «forzati» a mangiare insieme. È difficile valutare le conseguenze della rivoluzione sociale determinata da questo provvedimento. Sempre in quegli anni è è stata istituita una commissione nazionale che doveva definire le linee guida per rendere competitiva l'India a livello globale. A partire da ciò il governo ha presentato una riforma generale dell'educazione basata sull'apertura di 50 «università di eccellenza», alcune in franchising con la John Hopkins University, Cambridge e altre università.

L'introduzione di questi poli d'eccellenza è stata motivata anche dal fatto che il mercato della formazione in India è il più grande del mondo. Nel mio paese abbiamo bisogn di 25.000 professionisti del software che lavorino per 5 anni allo sviluppo di programmi informatici di insegnamento a distanza e a digitalizzare i corsi per tutte le università nelle 18 lingue che sono parlate in India. A testimoniare l'estensione del mercato della formazione ci sono le grandi case editrici come Routledge o Cambridge che hanno aperto uffici in India. Ho un'amica che è direttrice di Taylor & Francis, la più grande casa editrice del mondo: sostiene che il profitto di Routledge in India è uguale a quello che ha nel resto del mondo, a parte Stati Uniti e Regno Unito. Saeg ha compiuto una grossa ristrutturazione, riducendo le pubblicazioni nel campo umanistico e delle scienze sociali, allargando notevolmente la produzione di testi professionali, dalla medicina all'ingegneria. Anche i giganti di software e hardware sono di recente entrati in India. Infine, le raccomandazioni della «Knowledge Commission» sono molto chiare a proposito dei centri d'eccellenza: ad esempio, attraverso il franchising, l'università di Chicago avrà l'opportunità di aprire un campus in India con docenti che verranno pagati meno che a Chicago.

In Europa e in Nord America l'università è un nodo importante sia per i conflitti su saperi e formazione, sia nell'organizzazione delle lotte sociali. Avviene qualcosa di analogo anche nel contesto indiano? A quale livello agiscono i movimenti universitari di studenti, precari e docenti?

In India gli anni Sessanta sono stati uno spartiacque che ha visto lo sviluppo di un movimento maoista molto radicale. Sempre in quel periodo, il governo, dal canto suo, ha introdotto riforme nel sistema formativo che hanno avuto nel controllo nell'insegnamento il loro cuore. Ha istituito agenzie per controllare cosa è insegnato nei corsi di storia, nelle scienze sociali o umane e che definiscono i criteri per l'assegnazione delle borse di studio e il finanziamento dei i progetti di ricerca.

Dunque, gli anni Sessanta sono stati, per l'Università, una stagione di conflitti e di trasformazione. Conflitti che hanno coinvolto non solo gli studenti, ma anche i docenti e i ricercatori. Dalla metà degli anni Settanta fino al 2000 possiamo invece parlare di una «contro-rivoluzione» nel settore della formazione. Il sogno di molti studenti è diventato quello di diventare un professionista del software e andare a vivere negli Stati Uniti. Nell'immaginario collettivo si è fatta invece strada la figura del ragazzo povero che prende la laurea in chimica o fisica e diventa uno scienziato di fama mondiale negli Stati Uniti. Possiamo dunque affermare che è stata favorita la crescita di una classe media fortemente professionalizzata, mentre poco spazio era destinato alla letteratura e alle le scienze sociali o umane.

Si è scritto molto negli ultimi anni sul miracolo economico indiano. Per quanto riguarda l'università questo ha significato il ritorno di molti laureati, che lasciano gli Stati Uniti e magari iniziano a insegnare in India o che danno vita a imprese che si muovono nel settore dell'high-tech o delle biotecnologie.

Lei parla di una realtà universitaria in forte movimento. Ma quali sono i punti forti e quali quelli deboli della formazione universitaria?

Una realtà in movimento che presenta però delle faglie. Dobbiamo partire dal fatto che non è più un luogo che produce saperi critici e politici come negli anni Sessanta. Oggi questi saperi sono prodotti altrove, nei gruppi di base, tra i dalit, nei collettivi femministi. Questa è una ragione per cui il nostro gruppo, il «Calcutta Research Group», ha conquistato un grosso prestigio nonostante il fatto che siamo pochi e lavoriamo in circostanze molto difficili. Abbiamo la possibilità di lavorare su saperi di frontiera, cosa che non è possibile nell'accademia, e questo è molto apprezzato. Il fatto che l'università non sia un luogo di produzione di saperi critici non vuol dire che abbia smesso di essere un luogo di conflitto, al contrario.

Le entrate nell'università della casta bassa, dei dalit e delle donne sono rese possibili dal carattere pubblico dell'università sin dal tempo della dominazione inglese. Questo apertura ha provocato una seconda faglia. Il governo centrale vuole, ad esempio, riservare il 23% dei posti nelle scienze mediche ai dalit (l'India è infatti nota per produrre medici di qualità che vanno nel Regno Unito e negli Stati Uniti). Gli studenti delle classi alte contestano questa misura, sostenendo di essere arrivati a studiare per il loro merito. Da qui la loro contestazione del diritto di accesso all'educazione. Non siamo ancora a una situazione paragonabile alla critica dell'affermative action che c'è stata negli Stati Uniti, ma è indubbio che la tensione attorno a questo problema crea uan situazione di conflitto tra le apirazioni a una univeristà pubblica e aperta a tutti e chi è mosso invece da una logica selettiva nell'accesso alla formazione universitaria.

L'ultima faglia riguarda quindi il modo in cui il governo vuole finanziare i livelli più alti dell'educazione. Dobbiamo partire dal fatto che il 40% della popolazione in India è tutt'ora analfabeta, mentre cresce anche l'analfabetismo di ritorno. E' dunque sui finanziamenti dei centri d'eccellenza che si colloca la linea di conflitto su globalizzazione e formazione. Quindi, parlare di università e istruzione superiore significa privilegiare una realtà minoritaria rispetto a una domanda sociale di formazione molto più vasta. In altri termini, molti gruppi di base spingono affinché il diritto all'accesso alla formazione universitaria si un diritto universale, ma ma l'élite privilegia la costituzione di centri di eccellenza, magari attraverso la moltiplicazioni di università private. Insomma, le linee del conflitto sono mutevoli e articolate e provocano un mutamento profondo nel rapporto tra globalizzazione e formazione. Ma mi sembra che le faglie che io vede nell'università del mio paese non siano sono prerogative dell'India. Hanno certo delle specificità, ma attorno all'università, alla produzione di sapere si gioca una partita molto importante: la mappa dei poteri nella globalizzazione.




Tuesday, March 20, 2007

Parallel Powers: That Volatile Grammar of Rights


The following interview with Aihwa Ong and review of her book Neoliberalism as Exception: Mutations in Citizenship and Sovereignty were published in Il Manifesto on 13 March 2007.

Il neoliberismo è una tecnologia di governo che dall'economia è stata poi applicata alla politica, modellando in senso mercantile i concetti di sovranità e cittadinanza. Un'intervista con Aihwa Ong.

Brett Neilson
Gigi Roggero


Le vulgate sul neoliberismo espresse dala discussione altermondialista mainstream, laddove sono declinate nella soffocante etichetta del «pensiero unico», non hanno nulla a che vedere con la ricerca etnografica di Aihwa Ong. Docente di antropologia a Berkeley, è conosciuta in Italia per i suoi studi sulla cittadinanza flessibile dei cinesi in diaspora (si veda il n. 312 di aut aut del 2002) e l'analisi delle pratiche di cittadinanza e delle tecniche di governamentalità nel caso dei rifugiati cambogiani negli Stati Uniti, come evidenzia il volume Da rifugiati a cittadini pubblicato da Raffaello Cortina. È a partire dal titolo del suo ultimo libro Neoliberalism as Exception (Duke University Press) recensito in questa pagina che la discussione con la studiosa cresciuta in Malaysia prende le mosse.

Cominciamo dalla differenza tra «neoliberalismo come eccezione» ed «eccezioni al neoliberalismo», i concetti su cui si articola il suo saggio...

Più che una dottrina, guardo al neoliberalismo come una tecnologia di ottimizzazione che si è spostata dal dominio dell'economia a quello della politica. Una tecnologia di governo globale che può essere adottata da ogni regime politico, senza richiedere cambi sostanziali nel sistema statale o nell'apparato ideologico.

Nei contesti autoritari dell'Asia, ad esempio, la logica neoliberale è spesso introdotta come un'eccezione al business as usual, senza che questo significhi un cambiamento dei sistemi politici. Vi è semmai un'applicazione selettiva della competizione di mercato, dell'autoimprenditoria e dell'assunzione del rischio, che è infatti incoraggiata in specifiche zone di sperimentazione e non in altre. Così il «neoliberalismo come eccezione» è inestricabilmente connesso alle «eccezioni al neoliberalismo», poiché determinate sfere dell'agire umano e sociale sono giudicate off-limits ai calcoli di mercato.

L'intreccio dei due concetti è quindi un mezzo per accedere alla complessità e alla contingenza che caratterizza sempre l'attività di governo.

L'ineguale applicazione ed effetto della razionalità neoliberale in una nazione è chiaramente illustrata dal caso della Cina, dove c'è stato un intenso sforzo per incentivare l'attività individuale tra le popolazioni urbane, ma simili valori o empowerment sono off-limits nella politica statale. Un'azione selettiva che ho affrontato nel libro Privatizing China, Socialism from Afar.

Negli ultimi anni la questione dell'Asia, in particolare della Cina, è stata accompagnata in Italia dalla crescente paura per la competizione economica rispetto all'Europa. Qual è, secondo lei, il possibile rapporto tra una dettagliata e circoscritta ricerca etnografica (su cui il suo libro è basato) e una generalizzazione analitica sulla regione?

In Occidente alcuni autori e giornalisti si divertono a diffondere ansia sull'ascesa delle economie di mercato asiatiche. Una prospettiva estremamente pericolosa che ha le sue radici nella paura per il relativo declino delle superpotenze occidentali. Chi studia la Cina attraverso un lavoro sul campo tratteggia invece il quadro di una società vasta, eterogenea e dinamica. Molte nazioni asiatiche vedono il loro futuro strettamente interrelato a quello della Cina, fattore che potrebbe portare a una potente regionalizzazione economica nell'Asia Pacifica (si pensi all'organizzazione «Asean plus 3»), ma questo non costituirebbe certo una prova che la Cina cerchi un dominio politico fuori dai propri confini.

Lei traccia un parallelismo tra le trasformazioni della cittadinanza e quelle dell'università. Studenti e professori diventano imprenditori di se stessi, o «teconimprenditori». Quali sono le contraddizioni di questo processo? È possibile costruire delle eccezioni al «neoliberalismo come eccezione», cioè una visione alternativa dell'università e del sapere?

Il problema è la costruzione di una formazione universitaria pubblica. La University of California, un network di undici campus che costituisce il più prestigioso sistema universitario pubblico degli Stati Uniti, sta ricevendo sempre meno fondi, così è costretta a competere per risorse esterne e ad aumentare le tasse agli studenti. Stanford University è un eccellente esempio d una corporate university guidata da un presidente che ha stretti legami con Google e grandi imprese della Silicon Valley. L'anno passato ha raccolto più soldi di ogni altro campus americano, incluso Harvard, sia per finanziare la ricerca, sia per diventare istituzione globale.

Comunque, non dobbiamo pensare che, siccome le aziende supportano le università, i docenti non siano liberi di esprimere idee, fare ricerca e insegnare senza l'influenza del mercato. Il principale ruolo delle università negli Stati Uniti è insegnare i valori dell'Illuminismo, e come tali i campus sono un vitale contropubblico e interlocutore del capitale. L'esempio del «tecnoimprenditore» si riferisce a Singapore, città-stato che esplicitamente modella se stessa come un hub di conoscenza commerciale, dunque è il caso particolare di una piccola nazione dedicata alla mercificazione del sapere.

Lei ridefinisce la sovranità attraverso l'analisi degli «spazi latitudinali», che istituiscono nuove forme di mercato e provocano una etnicizzazione e mobilità del lavoro. Forse sarebbe utile esaminare la possibile emergenza anche di spazi longitudinali, che attraversano e sovvertono le geografie del potere. Se non si può ipotizzare un contropotere globalmente uniforme, quali sono i nuovi spazi di resistenza che emergono nel neoliberalismo?

Gli spazi latitudinali sono tracciati dai network transnazionali delle corporation. Nelle reti transpacifiche delle imprese asiatiche, i sistemi di mercato includono elementi di lavoro coercitivo, mentre le resistenze si formano all'interno di specifici milieus industriali. Molti sindacati occidentali vedono i lavoratori asiatici (in Occidente e in Asia) come rivali o peggio ancora, non comprendendo le loro particolari condizioni di lavoro e di vita.

Nella sua ricerca evidenzia il mutato ruolo delle metropoli nelle trasformazioni dei regimi di produzione, della sovranità e della cittadinanza. In cosa la sua analisi diverge rispetto a quella della studiosa di «global cities» Saskia Sassen?

Saskia Sassen ci ha fornito un efficace quadro
del ruolo cruciale che le metropoli globali hanno nel sistema economico. Io sono più interessata alle metropoli asiatiche come i principali siti degli investimenti statali.

Prendiamo il caso di Hong Kong, che sta rapidamente emergendo (eclissando Shangai) come il principale sito di investimento aziendale nel boom cinese. La sua ascesa come centro finanziario, allo stesso livello di Londra e New York, è dovuta alla sua localizzazione e al suo ruolo nella Repubblica Popolare Cinese. Lo status globale di Hong Kong è dovuto infatti alle possibilità di accesso alla sbalorditiva ricchezza della Cina, al talento umano e alle grandi opportunità di investimento.

Lei analizza come la governance neoliberale influisca sui cambiamenti dell'etica e della cittadinanza. Nel contesto italiano, in cui alcuni si rifanno alla distinzione machiavelliana tra politica ed etica, questo ricorso all'etica (presente in diversi seri lavori nel «mondo anglosassone») diventa talora il modo per evitare questioni politiche dirimenti, come il problema di mettere in comunicazione le strategie di mobilità e resistenza del lavoro vivo. La sua ricerca in Asia suggerisce la necessità di rivisitare la classica divisione tra etica e politica?

Machiavelli si concentra sulla ragion di Stato: questo modello giuridico della politica esercitato sul territorio nazionale confina l'etica nel regno della morale individuale. La nozione di potere sovrano spesso limita la comprensione del potere come una dinamica e una relazione mutevole.

Abbiamo urgentemente bisogno della nozione di Foucault di un'arte di governo che ha per oggetto la popolazione piuttosto che lo spazio nazionale. A differenza di Machiavelli, la governamentalità foucaultiana ha infatti per oggetto la popolazione, focalizzandosi sui piani della vita collettiva e individuale all'interno di specifici territori. Ora, a questa forma di gestione della condizione umana partecipano varie autorità (organismi multilaterali, Organizzazioni non governative) come professionisti dell'umano, eccedendo il contesto dello Stato-nazione.

La governamentalità sospende dunque la libertà del sovrano e fa affidamento sui saperi moderni (economia politica, biologia, psichiatria, medicina, scienze umane) per configurare la popolazione come un dato e un campo di intervento.

L'esercizio del potere/sapere dipende inoltre dalla varietà di meccanismi (tecniche militari, statistiche) che individuano una molteplicità di oggetti e di problemi. Il concetto foucaultiano di potere aggira dunque la sua visione meramente repressiva per riconoscerlo come forza produttiva: la relazione delle strategie e delle contro-strategie forma i campi particolari dei rapporti di forza. Individuare il potere come tecnica e pratica ci permette di seguire il flusso e le contingenze della decisione, dell'azione, delle resistenze e della trasformazione.

Il potere non è congelato nelle leggi, monopolizzato dallo Stato o dal capitale, ma è una sempre cangiante, strategica, mobile e pervasiva relazione di forze esercitata negli ambienti della contingenza e dei flussi. Io seguo la nozione foucaultiana di etica come pratiche di auto-formazione, ad esempio la cura del sé collegata a una particolare comunità di valori morali condivisi. Le pratiche etiche sono quindi inseparabili dalle quotidiane pratiche che intrecciano le sfere privata e pubblica.

Questa nozione del potere fondata sulla pratica è analiticamente cruciale per afferrare le problematiche politiche contemporanee e le strategie di risoluzione dei problemi. Non possiamo applicare concetti vecchi al mondo radicalmente diverso di oggi. Non ci sono contesti semplici e universali, o risposte già date in un mondo di molteplicità, flussi e incertezza. Come antropologa, provo a comprendere specifici milieus di problematizzazione e di risoluzione di problemi, provando a descrivere le vite delle persone senza far ricorso a metodi universali di cambiamento sociale.



Norme globali a geometria variabile

Cittadinanza, sovranità, formazione. Sono i campi» di intervento della studiosa Aihawa Ong nel libro dedicato al neoliberismo


Sajit è un ingegnere indiano trasferitosi negli Stati Uniti attraverso un «body shop», sistema di intermediazione che alloca il lavoro a basso costo nei mercati dell'hi-tech. Approdato in California dopo aver lavorato in un'azienda di software a Houston, Sajit - come molti suoi connazionali - fa anche il taxista, strada temporanea per realizzare il proprio «sogno americano». Sogno di difficile realizzazione, per Sajit così come per gli ingegneri bianchi della Silicon Valley colpiti da un vero déclassement quando le loro ditte hanno deciso per l'outsourcing a Bangalore, in India appunto. Potremmo dire che la divisione del lavoro cognitivo assume coordinate spazio-temporali nuove, estremamente mobili e continuamente rideterminate non solo dentro le singole aree geografiche, ma anche all'interno delle biografie individuali.

È proprio questo uno dei meriti della ricerca etnografica condotta tra Asia e Usa da Aihwa Ong, raccolta in Neoliberalism as Exception (Duke University Press): analizzare i meccanismi di scomposizione e riarticolazione della sovranità e della cittadinanza, a partire dai movimenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione dei soggetti e del lavoro.

Il regime neoliberale, argomenta Ong, è innanzitutto una rivoluzione spaziale. La frammentazione dello Stato-nazione non corrisponde all'estinzione, ma all'estensione di una sovranità che diventa flessibile. Sciolto il suo legame con la territorializzazione spaziale, la cittadinanza è ora una figura a geometria variabile, continuamente rideterminata dai flussi di capitali e dai movimenti del lavoro vivo. La radice della crisi della cittadinanza è individuata dall'autrice in tre fattori: la crescente migrazione, l'espandersi delle corporation transnazionali, l'internazionalizzazione dell'istruzione superiore. Di conseguenza, la grammatica dei diritti, lungi dall'essere radicata nella cittadinanza formale, si disvela nella sua realtà materiale. La metropoli diventa il nuovo spazio laterale in cui si articola il rapporto tra sovranità e mercato, una sorta di hub in cui l'esercizio del comando è funzionale alla capacità di attrarre risorse. Al tempo stesso, la rispazializzazione del territorio nazionale si determina poi attraverso le zoning technologies, cioè produzione flessibile di un arcipelago di enclave a sovranità variabile - è il caso del rapporto tra Cina, Hong Kong e Macao. La formazione assume qui un ruolo fondamentale, in quanto tecnologia sociale per la costituzione di soggetti in particolari spazi. L'università diventa quindi una «libera zona di impresa», un sito di investimento per la «tecnoimprenditorialità» o, come nella Boston d'oriente, Singapore, un incubatore di business per gli studenti-imprenditori.

Ripartiamo dal titolo: neoliberalismo come eccezione è tecnicizzazione della politica e gestione della vita sociale attraverso strategie di calcolo. L'eccezione funziona come meccanismo di inclusione differenziale. L'antinomia di Agamben tra la normatività e la nuda vita viene qui rovesciata: nell'Asia contemporanea la logica dell'eccezione non è associata alla pura sospensione dei diritti, ma alla creazione di condizioni per aprire mercati. Dovremmo ora interrogarci sulle eccezioni al neoliberalismo, incarnandole però in quelle irruzioni di mobilità fuori controllo che minacciano le forze latitudinali del potere aziendale. Sono queste la maggioranza di donne migranti che in Asia non desiderano la cittadinanza, bensì libertà di movimento. O quegli impazienti lavoratori cinesi che vogliono guadagnare soldi e nuove skill (competenze), rifiutando fedeltà alle corporation. Contestando il concetto di moltitudine, interpretata come soggetto omogeneo, l'autrice si concentra sulle lotte specifiche che si dispiegano negli spazi interstiziali tra diversi regimi etici: quelle delle femministe islamiche in Malaysia o degli indigeni che resistono alle nuove forme di accumulazione originaria nel Borneo. La ricchezza della ricerca etnografica della Ong dovrebbe forse aprirsi alla domanda sulla connessione tra queste situazioni, cioè al problema della comunicabilità delle lotte: alla costruzione, quindi, di un'eccezione generale al «neoliberalismo come eccezione».

Tuesday, February 20, 2007

Close the camps - if not now, when?


....Verso la manifestazione nazionale del 3 Marzo a Bologna
martedi 27 febbraio ore 10

DIBATTITO + VIDEO SMONTAGGIO CPT Via Mattei


Rete per l'autoformazione, Aula2 e Ya Basta Moltitudia presentano "CHIUDERE I CPT SE NON ORA QUANDO?"

Aula2occupata_Lettere la sapienza


Program
Call

Sunday, January 14, 2007

Modernity, Partiality, Universalism


The following is notice for a debate I will participate in at ESC Atelier Occupato on 18 January 2007.

La critica postcoloniale: modernità, parzialità e nuovo universalismo

Che cosa è la critica postcoloniale? E soprattutto cosa ci dicono della contemporaneità gli studi postcoloniali? Rispondere a queste domande vuol dire sottrarre un proficuo campo di analisi critica sul presente al rischio di risolversi in moda accademica, semplice fenomeno editoriale, o peggio in un'’apologia del tardo capitalismo. Dire postcoloniale non significa infatti il dischiudersi di un'era di eguaglianza e libertà, una cesura irreversibile con il passato del colonialismo. Significa invece sostenere che gli effetti del colonialismo non sono più confinati a quello che veniva definito il "terzo mondo", ma sono spazialmente diffusi, facendo quindi saltare la dialettica tra centro e periferia: tuttavia, non riescono più a fare sistema. La rottura è stata imposta dalle lotte, non dallo sviluppo capitalistico.

Seguendo le indicazioni della parte migliore dell'eterogeneo filone dei postcolonial studies, si tratta, per riprendere l'illuminate definizione dello storico indiano Dipesh Chakrabarty,esponente dei Subaltern Studies, di Provincializzare l'Europa, di operare cioè uno spiazzamento teorico e concettuale che ridefinisca gli strumenti con cui siamo abituati a leggere il presente. Stato-nazione, storicismo, democrazia,razionalità, cittadinanza, rappresentanza, ossia le categorie su cui si è plasmato il pensiero politico occidentale, sono messi a critica, aprendo lo spazio ad altre modernità possibili: quelle delle lotte e dei movimenti,quelle delle delle parzialità e dei giacobini neri di Haiti nella prima rivolta di classe contro il preteso universalismo della rivoluzione francese. Assunti come archivio critico e dispositivo di interrogazione genealogica, non come codificazione accademica, i postcolonial studies possono dunque aprire un campo di analisi per indagare e agire nelle metropoli "multiculturali", nel fuoco delle banlieue parigine o nello sciopero metropolitano dei latinos capace di mettere in ginocchio gli Stati Uniti. «È l'irruzione dei margini nel centro» scrive Stuart Hall; è la presa di parola di quello che una volta veniva chiamato "terzo mondo" contro il terzomondismo, per lasciare emergere le forme di disarticolazione dei dispositivi di dominio e sfruttamento.

Ne discuteremo con Miguel Mellino, Sandro Chignola, Brett Neilson. A partire dalla presentazione de La critica postcoloniale di Miguel Mellino (Melemi, 2005) e I giacobini neri di C.L.R. James (DeriveApprodi, 2006).