Wednesday, December 13, 2006

The past that refuses to pass, the future that refuses to wait


The following interview with Homi Bhabha, which I conducted with Ida Dominijanni, was published in Il Manifesto on 12 December 2006.



Il multiculturalismo di ascendenza liberale tratta le identità come stati sovrani. E questo accade quando la globalizzazione erode la sovranità Trasmissione culturale, eredità globale, interlocuzione, parzialità, ibridazione. La «politica della morte» nell'era del terrore e dell'errore. Toccare il trauma fra orgoglio e vergogna. La prospettiva di Homi Bhabha sul presente in transizione.


«Non c’è alcun documento della civiltà che non sia al contempo un documento della barbarie». Ritornando su questo giudizio di Walter Benjamin, Homi Bhabha, ospite d’onore al convegno sul meticciato organizzato giovedì scorso al Centro di studi americani di Roma, ha parlato del rapporto fra ambivalenza della trasmissione culturale, ambivalenza strutturale dell’esistenza personale e politica nel mondo globale, costruzione di una società ibridata alternativa al multiculturalismo identitario di marca liberal-pluralista. La tensione fra trasmissione di civiltà e «trasmissione barbarica» che i monumenti comunicano evoca la tensione fra «appropriazione carica di orgoglio e alienazione carica di vergogna» che sentiamo nei confronti delle narrative storiche da cui proveniamo: l’elaborazione di questa tensione è un passo necessario per fare spazio a un’eredità globale che le decostruisca e le superi. Homi Bhabha sviluppa il suo ragionamento a partire da una sua recente visita allo Zeppelinfeld di Norimberga. Ma poiché siamo a Roma, tanto vale ripercorrerlo a partire dall’Ara Pacis di Augusto, da poco riaperta al pubblico nel nuovo padiglione di Richard Maier, molto discusso dal punto di vista architettonico, meno dal punto di vista del messaggio memoriale.




La Pax Augustea sigla il passaggio dalla Repubblica all’Impero romano, dopo una lunga era di guerre. Guardando l’Ara Pacis con gli occhi di oggi viene da chiedersi: ci sarà mai un monumento che segni la fine della «endless war», come tu stesso l’hai chiamata, nell’Impero globale di oggi? E come te lo immagineresti?

E’ proprio dei monumenti siglare la fine delle guerre. Ma nel portarne la memoria, essi ne perdono l’essenziale: trascendono in una idealizzazione eroica il vissuto della violenza e della sofferenza. C’è un narcisismo dei monumenti, che risponde al bisogno di autocelebrazione dei sopravvissuti. Un memoriale della endless war in cui siamo precipitati con l’11 settembre, ammesso che essa avrà mai appunto una fine, dovrebbe restituirne le caratteristiche specifiche. Una guerra che da ambo le parti assume la forma di una guerriglia, e che da ambo le parti ha come obiettivo principale i civili: i cittadini comuni, che continuano a vivere «normalmente» sotto l’ingiunzione di lavorare, produrre e consumare, e che rischiano di esplodere mentre tutto viene deciso in nome della loro sicurezza. Degli orrori e dei dolori di questa guerra abbiamo già molti documenti: le foto di Abu Ghraib, delle atrocità di Saddam Hussein, degli ostaggi sgozzati, dei danni collaterali dei willing, dei musei saccheggiati, di Donald Rumsfeld che liquida tutto col suo «stuff happens». Un monumento dovrebbe restituire questa particolare condizione dei civili, di una vita quotidiana «normale» che è diventata obiettivo e posta in gioco.

Nella tua conferenza hai parlato del rapporto fra «trasmissione barbarica» e costruzione di una «eredità globale». Tema cruciale, perché invita a ripensare la globalizzzaione come un processo che non riguarda solo il presente e il futuro, ma anche il passato, o il passato anteriore.

Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente. Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta del mondo globale, per l’altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani». Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.

Guardiamo appunto al nostro presente. Oggi, tu dici, sono in atto due forme di «trasmissione barbarica»: l’islamizzazione tramite terrorismo e la democratizzazione tramite guerra. Che sono anche due forme di quella che tu definisci «politica della morte». Aldilà dell’evidenza, cosa intendi precisamente per «politica della morte»?

Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah Arendt , che la politica sia costruzione della polis, legame, interlocuzione, in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte, si entra nell’età del terrore e dell’errore, in cui il potere per un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l’altro rischia continuamente la fallacia nell’uso delle informazioni. Una situazione storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza e responsabilità.

D’accordo, ma la politica della morte è da sempre l’altra faccia della politica della vita: tanatopolitica e biopolitica vanno assieme, diceva Derrida...

...e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che segna l’era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing zone fatta di razzismo e esclusione. E’ bene però individuare il salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap il valore della vita. Nell’Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del mondo era: siete in grado di mettere l’individuo al di sopra della comunità? Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura dell’altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole: «la tua cultura vuole uccidermi?». E’ quello che chiamo complesso securitario.

C’è la politica della morte, e c’è la morte della politica. Mentre vige questa politica della morte che tu descrivi, in molto dibattito filosofico-politico si parla sempre più insistentemente di «fine della politica». C’è un rapporto secondo te fra queste due rappresentazioni, «politica della morte» e «fine della politica», e quale?

Per me, come dicevo poco fa, la politica della morte è la morte della politica. Ma con «fine della politica» - un tema che mi pare tipico del contesto italiano, un po’ come la «fine del romanzo» - credo che si faccia riferimento a un grappolo più ampio di questioni: fine della partecipazione, manipolazione della rappresentanza, perdita della trasparenza democratica, illegalità, corruzione, fine dello stato. Tutti processi realmente in atto. Tuttavia, prima di decretare la fine della politica bisogna uscire dalla rappresentazione classica del teatro della politica come dinamica stato-antistato. Negli ultimi decenni, soggetti non statali e transnazionali , dal femminismo ai movimenti sull’Aids e la politica sanitaria, hanno modificato quel teatro portando nella sfera pubblica questioni prima confinate nella sfera privata. Nella fine della politica, c’è dunque anche una politica che comincia, incentrata su domande etiche.

Questo ricorso supplementare all’etica però è a sua volta tipico del dibattito anglosassone, e talvolta suona come un modo per evitare i problemi della politica...in che rapporto stanno scelta etica e decisione politica?

Etica e politica vanno assieme, sono, più che intrecciate, incastrate. L’etica non è un’aggiunta della politica, come i comitati etici nominati dai parlamenti in crisi: l’atto politico presuppone la scelta etica, e la scelta etica fa parte del teatro della politica. E la nostra posizione nel presente, fra il passato che non passa e il futuro che non aspetta, la intendo come posizione etica e politica.

Questa posizione tuttavia, nel tuo discorso, è strutturalmente caratterizzata dall’ambivalenza, termine che tu prendi dichiaratamente dalla psicoanalisi. Nella tua lezione al festival di filosofia di Roma dello scorso maggio, hai detto che il lessico della politica è troppo stretto e va arricchito e modificato con categorie esterne. L’ambivalenza è una di queste?

Sì. L’ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale, tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell’ambivalenza invece non c’è sintesi, c’è solo il lavoro continuo dell’elaborazione e dell’interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale ha molto a che fare con il modo di pensare l’identità, la parzialità, le differenze, il multiculturalismo.

Perché?

Perché nell’accezione liberale prevalente il multiculturalismo si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza, il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani. Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell’identità e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non ci sono culture che si muovono compattamente l’una contro l’altra: ci sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni, economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all’opera nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità, ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.

La pratica centrale che tu indichi per entrare in questa complessità è quella dell’interlocuzione. L’interlocuzione va intesa anche come inter-locazione?

A febbraio presenterò What does a terrorist want?, un libro che sostiene che con i terroristi bisogna interloquire, differentemente da quanto fanno i governi occidentali e da quanto facevano Thatcher e Reagan con Mandela quando lo bollavano come terrorista. L’interlocuzione non è il dialogo habermasiano, che presuppone un orizzonte di riferimento comune. Nell’interlocuzione non ci sono fondamenti condivisi, la situazione è disgiuntiva, inuguale, non del tutto traducibile; l’interlocuzione non si basa su una lingua comune, ma su un trauma della lingua che domanda a tuttti e due gli interlocutori, il carnefice e la vittima, di cambiare il proprio lessico.

Quali sono le sedi di questa pratica dell’interlocuzione? Quando accenni a delle istituzioni cos’hai in mente? L’università, l’Onu, il Wef...?O dobbiamo inventarne di nuove?

Non pensavo solo a nuove istituzioni, dobbiamo cominciare dai luoghi che già frequentiamo...ad esempio, noi stiamo facendo questa intervista per il manifesto, con un linguaggio diverso da quello canonico dei giornali. C’è una proliferazioni di istituzioni, corti di giustizia, sedi di elaborazione collettiva in cui si sperimentano forme di interlocuzione: in Ruanda, gli hutu e i tutsi hanno respinto il dispositivo che gli era stato proposto e hanno tirato fuori i loro tappeti per disegnare il territorio della riconciliazione.

«We must love one another or die»: che cosa significa politicamente il verso di Auden che hai citato nella tua conferenza? Una politica dell’amore contro la politica della morte?

Parlo di amore sociale, alleanza, solidarietà: il ventaglio complesso di identificazioni che l’amore suscita. Dal sisma della sovranità possono nascere nuove forme di affiliazione, tenute assieme non dalla razionalità del politico ma dall’intero lessico degli affetti che impronta la nostra esistenza pubblica e privata, le sue ambivalenze, il processo interminabile della loro elaborazione.

Photos of Ara Pacis by Adal Tiburzi.

Tuesday, November 28, 2006

Commodity and conflict, Creatives at work on the net




The following review of the MyCreativity conference (Amsterdam, 16-18 November 2006) was published in Il Manifesto on 26 November 2006.


«MyCreativity». Ad Amsterdam studiosi, designer e informatici discutono di «creativity industry». Dalla precarietà alle esperienze di produzione alternativa, prove tecniche di una politica reticolare
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«Siamo tutti nati originali, ma la maggioranza di noi muore come copia». Suona così uno degli slogan riprodotti nel libro Creativity For All della designer olandese Mieke Gerritzen e distribuito ai partecipanti al convegno MyCreativity: Convention on International Creative Industries Research, organizzato da Geert Lovink (dell'Institute of Network Cultures della Hogeschool van Amsterdam) e Ned Rossiter (del Centre for Media Research dell'università di Ulster) che si è tenuto di recente ad Amsterdam. Con una grafica di forte impatto - e pieno di slogan come «Produzione della significanza = produzione del valore = produzione del conflitto» - il libro di Gerritzen è solo uno dei prodotti nati in occasione del convegno. Un incontro preparato con un notevole sforzo organizzativo che ha fatto leva su una mailing list attivata con sei mesi di anciticipo e grazie alla quale sono state distribuite gratuitamente 10 mila copie del giornale The Creativity, ed è stato possibile accedere ai filmati degli interventi (www.netcultures.org). Ad Amsterdam è stato anche presentato Organised Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions (Nai, euro 23,50) di Rossiter, un testo che, insieme agli scritti di Lovink, già noto in Italia, rappresenta il quadro teorico più coerente della filosofia e della politica di cui il convegno voleva farsi espressione.

Se in Italia la cosiddetta «industria creativa» è stata protagonista nell'ultimo decennio da un lato della retorica dell'imprenditorialismo berlusconiano e dall'altro della grande fuga del «made in Italy», molti altri paesi hanno seguito una politica più elaborata. Sopratutto il Regno Unito di Blair che nel 1997 ha introdotto le sue prime policies, un corpo di interventi per stimolare job creation e favorire la crescita economica attraverso la moltiplicazione dei cosiddetti creative clusters nelle città e «lo sfruttamento della proprietà intellettuale». Ma anche Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Svezia, Taiwan e Singapore hanno avviato politiche governative a sostegno dell'innovazione. Background comune, in modo più o meno esplicito, sono le idee divulgate da Richard Florida nei suoi libri sulla «classe creativa» (La crescita della classe creativa e La classe creativa spicca il volo, editi da Mondadori e recensiti su queste pagine il 12 febbraio 2004 e il 24 novembre 2006). La buzzword dell'industria creativa è arrivata anche nelle metropoli cinesi: la sfida è passare dal «made in China» al «created in China». L'industria cinese ora cerca non solo di copiare la scarpa la cui foto digitale è arrivata a Shanghai pochi minuti dopo essere stata messa in vetrina in via della Spiga, ma di creare una scarpa della stessa qualità e che interpreta le tradizioni cinesi per un mercato globale.

Ma industria creativa significa anche capacità innovativa delle imprese capitalistiche. L'innovazione non riguarda solo la produzione di merci come scarpe, musica o web design, ma anche software, biotecnologie o perfino le più sofisticate armi militari (un'attività che coinvolge sempre di più la technology transfer dalle università). Il punto, però, non è se la creatività o l'innovazione coinvolgono merci eticamente discutibili, bensì che l'industria creativa produce merci con una loro indifferenza formale nonostante l'iniziativa innovativa che ha contribuito alla loro esistenza. È per questo che il gergo dell'innovazione o della creatività nel capitalismo postfordista è diventato una specie di codice per dire più dello stesso. Si tratta di un'azione innovativa che ha capacità di creare un'apertura politica. «Il conflitto non è una merce. La merce invece no, la merce è sopratutto conflitto», come recita uno slogan del gruppo «guerriglia marketing» (www.guerrigliamarketing.org).

MyCreativity è nato con l'intenzione di esplorare questo conflitto non dal punto di vista delle imprese o della policy ma da quello del creativo, cioè del soggetto senza il quale queste industrie non esisterebbero. Non si tratta solo dei conflitti che nascono dalla diffusa precarietà del lavoro creativo o dell'eccesso di passione che lega il creativo alle sue condizioni di sfruttamento, ma di quelli emergenti nei cosiddetti creative clusters delle metropoli. Che non favoriscono la crescita economica attraverso la proprietà intellettuale, ma attraverso il mercato immobiliare che prima si gonfia col crescere dell'attività creativa e poi «sfratta» il «creativo-precario» che non riesce più a pagare l'affitto. Ma il convegno ha avuto il pregio anche di evidenziare altri conflitti che hanno radici nella natura più intima del capitalismo post-fordista, come dimostra la reazione ostile del pubblico alla retorica del «dibattito aperto» e di «libera scelta di ogni creativo di partecipare o no al sistema del copyrigh» di un esponente della Wipo (World Intellectual Property Organization).

Ma se l'impostazione critica verso il concetto di industria creativa è stata il terreno comune dei partecipanti, obiettivo dichiarato degli organizzatori era il superamento dell'elaborazione fin qui prodotta, ad esempio dalla scuola di Francoforte contro la cosiddetta industria culturale o dai post-operaisti italiani contro il capitalismo cognitivo. Per questo è stato dedicato molto spazio all'analisi delle «pratiche creative alternative», cioè a quelle forme organizzative che si giostrano tra il rischio di cadere intrappolati nel sistema di public-private partnerships (tipico della governance nei paesi anglosassoni nell'ultimo decennio) e la gratuità del lavoro che qualifica le iniziative open source (almeno fino a quando sono inglobati da interessi privati). In questa ottica è significativa l'esperienza di Lovink e Rossiter come promotori di mailing lists come nettime e fibreculture, esperienza che hanno contribuito allo sviluppo di una politica reticolare tesa non al confronto tra verticalità e orizzontalità ma a rendere problematico questo confronto. Da qui la scoperta di modalità di organizzazioni non rappresentive al tempo stesso distribuite e decisionistiche. Per molti versi MyCreativity è stato un concentrato di questa politica reticolare, interessante più per la forma che per il contenuto. Un caso raro in cui al «collegamento» digitale è stata data l'opportunità di diventare relazione politica.

Tuesday, November 14, 2006

Il paradosso del laboratorio italiano


The following article was published in Il Manifesto on 12 November 2006 as part of a special section entitled In the shadow of the factory. The special section was to mark the 40th anniversary of the publication of Mario Tronti's Operai e capitale, the so-called bible of operaismo, as well as the republication of this text by DeriveApprodi. The other contributions by Mario Tronti/Ida Dominijanni, Gabriele Polo, Vittorio Rieser, Gigi Roggero, Toni Negri, Sergio Bologna and Catrin Dinger are available here.


Una teoria della rivoluzione che nasce in Italia dalle lotte degli anni Cinquanta e Sessanta e non poteva nascere altrove. Ma penetra nel mondo anglofono quando «l'esperimento italiano» è chiuso, grazie alla sua capacità di leggere il postfordismo nascente.


Sarà un caso che il Lenin di Tronti abbia soggiornato non in Italia ma in Inghilterra, e il suo Marx a Detroit? Scrivere della recezione di Operai e capitale in quello che in Italia si insiste ancora nel definire come «mondo anglosassone » è difficile. Una delle ragioni sta nel fatto che il libro di Tronti non è mai stato interamente tradotto in quella lingua, l'inglese appunto, che è usata da tempo a livello mondiale più come seconda che come madre lingua, il cosiddetto global English, l'equivalente generale di tutte le lingue. Perfino oggi in inglese si trovano solo quattro capitoli di Operai e capitale, più il Poscritto dei problemi dell'edizione del 1971; e tutti e cinque sono disponibili su Internet. Ed è proprio dall'elenco dei capitoli tradotti (e quando e da chi) che propongo di partire, non tanto per puntiglio filologico ma per offrire una guida all'impatto del primo Tronti nell' English-speaking world.

Prima però è opportuno considerare un paradosso di partenza, che influenza non solo la traduzione ma la stessa scrittura di questi saggi. Da un lato, i concetti e la metodologia di Operai e capitale sono il frutto delle lotte operaie che si sono dispiegate in Italia negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Il libro si situa inuncontesto reale, cheTronti chiama la fabbrica, e che non fornisce tanto la base di una teoria quanto le coordinate di una pratica: un nuovo modo di praticare la politica o meglio un nuovo «stile» politico. L'operaismo è nato in quella provincia che si chiama Italia e questa nascita non poteva avere luogo altrove.

Dall'altro lato, se si legge Operai e capitale è chiaro che l'analisi diTronti si basa su una realtà che esiste al di là del «caso italiano», cioè sull'unità del movimento della classe operaia a livello mondiale. In Lenin in Inghilterra si legge infatti: «La forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e constringe il capitale - entro un lungo periodo storico - a rendersi altrettanto omogeneo». E' questa cosiddetta omogeneità non della classe operaia ma della forza-lavoro (che, merita di ricordare, per Marx è non solo una merce circolante al pari delle altre, ma anche una categoria astratta della potenzialità) che fornisce il luogo comune a partire dal quale si può capire la diffusione del pensiero operaista attraverso contesti linguistici e culturali diversi. Si tratta insomma di qualcosa di più di quello che Edward Said ha chiamato «travelling theory». La forza-lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze geografico/ culturali si toccano e deflagrano. E si badi bene: la posta in gioco è ben altro che l'analisi dell'impatto della lotta operaia nei suoi vari contesti storico/geografici - un approccio che di fatto offrirebbe una critica solo parziale del capitalismo.

È in questa ottica che ha senso interrogarsi sul contesto in cui alcuni capitoli di Operai e capitale sono stati tradotti in Inghilterra e negli Stati uniti negli anni Settanta, e cioè dopo quel Sessantotto che per Tronti sarebbe stato lo spartiacque che dell'operaismo annuncia la fine. Le prime traduzioni sono apparse negli Stati uniti nel biennio '72-'73, al tempo cioè della crisi petrolifera, della fine della guerra in Vietnam e soprattutto, secondo autori come Frederic Jameson o David Harvey, dei primi passi del capitalismo postfordista. È del '72 la traduzione sul giornale Radical America di una parte del capitolo di Operai e capitale intitolato Marx, forza lavoro, classe operaia, al fianco di un pezzo intitolato Theses on the Mass Worker and Social Capital, scritto da Silvia Federici e Mario Montano sotto lo pseudonimo di Guido Baudi. Lo stesso anno la rivista newyorkese Telos tradusse il Poscritto di problemi con una introduzione di Paul Piccone. Seguì poi nel '73 la traduzione su Telos di Social Capital, pubblicato con il titolo originale Il piano del capitale. Nel frattempo Ed Emery e John Merrington del Red Notes Collective in Inghilterra tradussero vari scritti operaisti, fra cui Lenin in Inghilterra e La strategia del rifiuto che, prima apparsi come opuscoli, sarebbero usciti nel '79 in un volume intitolato Working Class Autonomy and the Crisis.

Questo elenco non solo esaurisce ciò che di Operai e capitale è stato tradotto in inglese ma anche ciò che è stato tradotto dell'intera opus trontiana (sembra che Telos comprò i diritti di traduzione di Tronti da Einaudi, ma l'intenzione di procedere sparì dopo la morte di uneditore importante). Vale la pena di sottolineare che se da un lato è forse possibile cogliere l'argomento del libro nella sua interezza e complessità mettendo insieme i frammenti pubblicati in circostanze così diverse, tale ricostruzione diventa lo sforzo di pochi militanti.

Le traduzioni di Tronti sono sempre state pubblicate al fianco di altri pezzi del marxismo internazionale o operaismo italiano: Georg Luckács e Sergio Bologna in Telos, Toni Negri e lo stesso Bologna in Red Notes, e poi Bifo, Paolo Virno e altri nell'importante antologia intitolato Italy: Autonomia- Post Political Politics del '79 curato da Sylvère Lotringer e Christian Marazzi. Il punto è che non si è mai dato spazio ad una lettura sistematica di Tronti in inglese. Il Tronti dell' English-speaking world è parte di un mix selettivo dell' operaismo e di conseguenza i suoi conflitti e disaccordi con tanti dei suoi compagninon sempre sono stati evidenziati. E questo nonostante il fatto che il Poscritto del '71 (pubblicato non solo da Telos ma anche in un volume britannico intitolato The Labour Process and Class Strategies del '76) sia stato concepito dall'autore come una risposta al Sessantotto, e constituisse un salto verso la sua tesi sull'autonomia del politico. Di fatto, anche nelle trattazioni dell'operaismo pubblicate da figure in grado di leggere le opere italiane in lingua originale, come Harry Cleaver negli Stati Uniti e Steve Wright in Australia, il leninismo di Tronti è forse risultato meno evidente ai lettori anglofoni che ai lettori italiani.

Ci sono due possibili spiegazioni di questa recezione che enfatizzava il rifiuto del lavoro e il primato della lotta operaia sul capitale piuttosto che l'organizzazione partitica: da un lato il fatto che le traduzioni vengono pubblicato dopo l'esperienza del Sessantotto, dall'altro la diffusione del postfordismo, ben più rapida nei paesi avanzati del mondo anglofono che in Italia.

Non che in Operai e capitale non fosse evidente lo scarto tra la strategia di rifiuto e la richiesta del potere del partito. È infatti proprio questa distanza a spingere Tronti ad argomentare che il marxismo non ha mai avuto una teoria adeguata dello Stato, e perciò a indurlo a immettere nella sua analisi Carl Schmitt, definito da JacobTaubes come «l'unico antileninista di rilievo». Da qui si dispiegano anche i discorsi sulla «rude razza pagana» e la lucidità con cui Tronti scrive della sconfitta del movimento operaio dopo l'89. Non c'è dubbio che questa sua grande negatività produca una capacità d'analisi estremamente incisiva e fornisca una fonte di ispirazione per quanti non si lasciano ancor aconvincere dall'ugualmente forte spinozismo rivoluzionario di Impero di Michael Hardt e Toni Negri. Infatti è la ricerca diuna tradizione dell'operaismo alternativa a quest'ultimo che di recente ha spinto alcuni giovani pensatori di lingua inglese a rileggere il primo Tronti (vedi il 'blogweave' organizzato da Angela Mitropoulos sul blog Long Sunday).

Tuttavia io ritengo che sia un errore leggere Tronti contro Negri. Più urgenti sono il tentativo di capire come il capitalismo sia cambiato grazie alla lotta operaia, e la sfidadi creare nuove forme di organizzazione con cui combatterlo. La domanda non è dove soggiornerebbero il Lenin e Marx di Tronti oggi (inCina o a Bangalore?), ma che fare nelle condizioni attuali di diffusa precarietà in cui il partito, il movimento operaio, la fabbrica e la strada non sono più l'architettura principale della communicazione e dell'organizzazione. Si tratta non solo dell'emergere della produzione in rete ma anche dei cambiamenti importanti nel modo in cui la politica viene organizzata. Lo spazio della politica non è più un laboratorio in cui si sperimenta (e dove la «normalità» della politica moderna gioca un ruolo di neutralità sul cui sfondo si possono controllare gli esiti dell'esperimento), ma un groviglio complesso in cui la posta in gioco è dare forma politica a diffuse esperienze spesso contingenti e contradditorie.

È un caso che l'Italia degli operaisti sia sempre stata concepita come laboratorio? Credo che questa metafora andrebbe archiviata. L'esperienza politica nell'era del postfordismo che stava emergendo quando il primoTronti fu tradotto in inglese, non è un esperimento ma un complesso di relazioni, mediazioni e affetti tramite cui l'ontologia della politica si rende evidente solo fenomenologicamente. Al tempo stesso, l'ultimo Tronti - una voce che si leva dalla modernità per criticare duramente i tentativi postmoderni di «organizzare gli inorganizzabili» - non è uno spettro derridiano. È una voce inattuale che vale la pena di ascoltare attualmente, non per entrare nella melanconia di una sinistra che non sa come elaborare il lutto di ciò che è stata, ma per spingere l'organizzazione politica contro il suo zoccolo più duro, per rendersi conto che la sola azione politica su cui valga la pena di riflettere oggi è quella concepita non con la convinzione che Tronti ha ragione ma con la forza di agire come se avesse ragione.

Tuesday, October 24, 2006

I "Quaderni" dal postcoloniale


This article was published in Il Manifesto on 22 October 2006.

Gramsci torna in Italia grazie alla reinterpretazione della sua opera compiuta dai teorici critici degli «studi culturali». Una lezione a Bologna della filosofa di origine indiana Gayatri Chakravorty Spivak

Cosa rappresenta l'eredità di Antonio Gramsci per il pensiero politico del presente? Forse non è esagerato dire che oggi la lettura di Gramsci ha raggiunto un minimo storico nel Nord del mondo, e quando pure Gramsci viene letto è spesso per dichiarare la sua irrelevanza. Basta citare il titolo di un libro pubblicato l'anno scorso in Canada, Gramsci is Dead di Richard Day, o consultare il sito di un altro studioso molto più acuto, Jon Beasley Murray che attualmente sta scrivendo un libro intotolato Posthegemony e sostiene che il concetto di egemonia non è adeguato per analizzare la presente organizzazione del potere (posthegemony.blogspot.com).

Il ritorno in Italia

In Italia è palese che una parte dell'ultima generazione politica, quella etichettata molto problematicamente come no-global , lavora con una cassetta di attrezzi concettuali assai diversa da quella gramsciana: sussunzione reale invece di egemonia, moltitudine invece di subalterno, cognitariato invece di intellettuale organico, esodo invece di rivoluzione passiva, postfordismo invece di fordismo. È sufficiente però soffermarsi su questi ultimi due concetti (ricordando che il prefisso «post» indica non solo una rottura ma anche una continuità) per rendersi conto che l'eredità di Gramsci non è totalmente dispersa in Italia. Questo in aggiunta al fatto che il suo pensiero sta tornando nel suo paese d'origine tramite flussi transnazionali, soprattutto quelli associati alla diffusione dei cosiddetti studi postcoloniali. Segnale eloquente di questo flusso di ritorno è l'invito rivolto a Gayatri Chakravorty Spivak, nota non solo come una dei principali esponenti degli studi postcoloniali nel mondo ma anche come una pensatrice femminista di rilievo, a parlare di «Gramsci nella storia del presente» la scorsa settimana a Bologna. Il seminario, organizzato dall'Istituto Gramsci dell'Emilia Romagna, la rivista Studi culturali , il dipartimento di politica, istituzioni, storia dell'università di Bologna e il Johns Hopkins University Sais Center, è nato proprio dalla volontà di riconoscere il proficuo influsso che il pensiero gramsciano ha esercitato sugli studi postcoloniali. A partire dai primi anni Settanta, gli scritti di Gramsci sono infatti diventati un punto di riferimento importante per i teorici critici che hanno subìto l'esperienza del colonialismo, sia quelli che hanno traslocato nelle metropoli occidentali sia quelli che vivono tutt'ora nel Sud del mondo. Esempi importanti sono, a questo riguardo i lavori di Stuart Hall, un giamaicano emigrato nel Regno Unito, fra i protagonisti dei primi studi culturali che ha reinterpretato la categoria di egemonia per riconcepire le relazioni razziali-etniche di potere e lanciare una delle prime critiche al neoliberismo nella Gran Bretagna di Thatcher. Esemplare è al proposito l'assunzione del pensiero di Gramsci nella «Subaltern Studies Collectiv»e di Calcutta, di cui la Spivak ha fatto parte per tanti anni, per studiare il ruolo del contadino indiano e di altre figure sociali subalterne nela lotta anticoloniale. L'invito a Spivak perché parlasse di Gramsci a Bologna da un lato suona come un riconoscimento del confronto avviato dal Sud del mondo con questo pensatore italiano. Dall'altro lato però, essendo Spivak una docente prestigiosa della altrettanto prestigiosa Columbia University di New York, registra la tendenza tutta italiana ad importare con un certo ritardo le mode del mondo intellettuale statunitense. Infatti Spivak, consapevole di questa dinamica, ha approfittato dell'invito per intraprendere un detour tramite gli scritti di Gramsci ed esplorare quello che lei descrive come il suo «totale doppio legame individuale»: una condizione dovuta al fatto di non essere solo docente in una delle università più potenti del mondo ma di avere anche lavorato negli ultimi vent'anni come insegnante di «bimbi subalterni» in alcune scuole delle provincie piu povere del Bengala.

L'intellettuale e il subalterno

A partire dai saggi di Gramsci sull'istruzione - che enfatizzano non solo le potenzialità della scuola nella «guerra di posizione» contro le élite, ma anche l'esigenza di instaurare una certa disciplina nell'alunno tramite lezioni in latino e greco - Spivak struttura il suo intervento sulla memoria personale della sua esperienza in Bengala, per poi lanciare una critica alle iniziative volte a migliorare la situazione nel Sud globale tramite aggiustamenti top-down , dall'alto in basso: il «paternalismo autoimmune» o «l'imprenditorialità morale» delle Ong, così come gli sforzi di personalità «eccellenti» quali il premio Nobel per l'economai Joseph Stiglitz, che cercano di ridesignare il Washington consensus . Secondo Spivak ciò che è assente in queste iniziative è precisamente ciò che Gramsci le ha insegnato: come «ripensare l'interfaccia epistemica tra l'intelletuale e il subalterno», o come agire politicamente nel Sud «senza sparire nell'etico». La posta in gioco per Spivak non è solo quella di una istruzione radicale (sviluppata sulla scorta di Gramsci dal noto pedagogo brasiliano Paolo Freire), ma un'indagine su come «l'imaginazione può creare una storia dell'impossible, costruendo altri presenti per contestare il mio». Oppure, per ricordare il suo elegante sommario di quanto ha imparato da Gramsci: «come imparare ad imparare da sotto». Come può l'intellettuale convincere il subalterno invece di constringerlo, essendo lo spazio fra i due pieno di interpreti? È questa la domanda che Spivak affronta tramite la lettura di Gramsci, proponendo una risposta in tre momenti: l'aula, la lingua, il genere. Per quanto riguarda il primo, è palese che la Spivak non propone quello che Dipesh Chakrabarty, nel suo Provicializzare l'Europa (Meltemi), definisce postcolonialismo pedagogico: una politica che cerca di trasformare il subalterno in un obbediente cittadino dello stato moderno. Anzi, dato che il subalterno è già formalmente cittadino di uno stato moderno ma escluso dai processi non solo giuridici, la sfida è di lavorare con il subalterno per accedere ad uno spazio politico in cui egli può interrompere la narrativa dominante della globalizzazione. Per fare questo però non è abbastanza insegnare nell'aula del subalterno. È anche necessario istruire gli istruttori, nonché, aggiunge Spivak ricordando implicitamente il suo impegno alla Columbia, istruire le élite. A proposito della lingua, e premettendo che Gramsci non sarebbe oggi tra coloro interessati ad accedere ai circuiti globali dominanti con l'aiuto di un interprete, è solo necessario ricordare il suo interesse per i dialetti italiani. Lo sforzo epistemico di contro-globalizzazione, sostiene Spivak, non è empiricamente globale. In relazione al genere, Spivak insiste sul bisogno di andare oltre un femminismo recriminatorio - come quello di Teresa De Lauretis quando sostiene che Gramsci avrebbe usato le due donne della sua vita. Il contatto fra il femminismo e Gramsci sta piuttosto nel nesso fra agency e soggettività e, per Spivak, coinvolge una politica molta pragmatica che fa tutt'uno con la sua lotta di insegnante nel Bengala per tenere le bambine nella sua classe.

Tra nostalgia e rimozione

Tutto questo dimostra che Spivak non lavora per un ritorno a mo' di «restaurazione» di Gramsci, né in Italia né altrove. Quello che le interessa è piuttosto la lezione di Gramsci e la sua eredità. Come sappiamo dal Nietzsche di Sull'utilità e il danno della storia per la vita, il tentativo di dichiarare un nuovo inizio può essere tanto pericoloso quanto l'adesione cieca alla tradizione; per usare altre parole, l'amnesia è tanto problematica quanto la nostalgia. Il rientro di Gramsci in Italia tramite gli studi postcoloniali può essere inteso come un ritorno solo se si tratta il passato «come un altro paese», per riprendere un'espressione dello storico inglese Eric Hobsbawm. L'intervento di Spivak pone comunque domande importanti non solo a proposito di Gramsci ma in relazione a tutta la politica moderna che, analogamente a Gramsci, è stata dichiarata morta. Come teorici politici abbiamo infatti la responsibilità di riconsiderare la politica moderna e decidere quanto di quel passato dobbiamo tenerci? O la situazione è rovesciata come per quelli a cui nel Sud del mondo è capitato di leggere Gramsci? Nel senso che non sono loro o noi a scegliere l'eredità ma è l'eredità, tramite i conflitti a cui partecipiamo, che ci sceglie?

Thursday, October 12, 2006

Categories of the Impolitical

I decided to read Roberto Esposito’s Categorie dell’ impolitico (1988) when a friend mentioned at a dinner in Rome that she thought it was his most impressive book. In its final pages, this text already reaches toward the theme of community that, from the middle of 1990s, would link Esposito’s thought to the work of Jean-Luc Nancy and inspire the composition of three texts, Communitas (1998), Immunitas (2002) and Bios (2004), with which Esposito’s name has now become synonymous. The timeliness of the last of these works, published as it was upon the heels of Hardt and Negri’s affirmative elaboration of biopolitics, is marked by the fact that it will be the first of Esposito’s books to be translated into English. What strikes about Categorie dell’ impolitico, by contrast, is precisely its untimeliness.

Esposito is at once a more deconstructive and more academic thinker than his operaista counterparts, but Categorie dell’ impolitico bears nothing of the pensiero debole that marked Italian academic philosophy in the 1980s. It takes a different track, working through writings by Schmitt, Arendt, Broch, Canetti, Weil and Bataille to trace an alternative line of thought that questions the auto-legitimating logic of modern politics both in its representative and contractual moments as well as in its politico-theological modes of legitimation. More than a work of Begriffsgeschicte, the book looks backwards to see forward, beyond the events of 1989, which were brewing as the text was composed. Far from approaching this historical moment with leftist melancholy or intimations of Hegelian inevitability, Categorie dell’ impolitico declares, as Esposito would suggest in the preface to the text’s 1999 resissue, ‘the end of the end of the political’.

It is not only in this historical sense, however, that the book is untimely. In its formal functioning also, the text displays a complex syncopation, refusing to correlate its movement from chapter to chapter with any kind of neat transition from discussions of one thinker to the next: from Arendt to Broch, for example, or Weil to Bataille. These changeovers are rather accomplished on the back of concepts, appearing part way through the chapters and often in unexpected ways. They are the points of maximum tension in the text—little knots, if you like, characterised at once by elegant textual slippages and powerful conceptual tightenings. Indeed, the name of the book itself, deriving as it does from both Schmitt’s Begriff des Politischen and Mann’s Betrachtungen Eines Unpolitischen, displays something of this knot-like quality, lacing together two opposing threads of thought from which it equally wants to declare a departure.

For Esposito, it is crucial to distinguish the impolitical from the apolitical. While the latter determines the political negatively, sitting outside or beyond it, the former is coextensive with politics and, indeed, limns it. This means the impolitical cannot be identified with the processes of depoliticisation that characterise secular modernity. In Römischer Katholizismus und politische Form, Schmitt complains that modern politics has become merely a matter of technics. And he seeks to restore authority to politics by submitting it to a kind of theological transvaluation. Noting the affinities of Schmitt’s argument with that of theologian Romano Guardini, Esposito contends that this depoliticisation and theologisation are two sides of the one coin. The more the modern state cedes its sovereign power to technics and economic forces, the more it clings to the theological supplement that animates its claims to autonomy. The impolitical is the category that exposes this secret complicity. ‘It does not oppose value to politics’ Espositio explains. ‘But does exactly the opposite. It refuses the attribution of value to politics or its theological valorisation’.

Central, for Schmitt, to the theologisation of sovereignty is the principle of representation. ‘There is no politics without authority’, he writes, ‘nor is there authority without an ethos of conviction’. Representation, understood as a complexio oppositorum that holds together opposite elements without merging them, is the formal device by which the Catholic Church links power and authority, decision and conviction. By joining, through an infinite chain of mediations, the authority of the priest to the persona of Christ, the Church acquires a juridical-representative structure that invests it with a specifically wordly power. Thus, while representation becomes central to modern politics after Hobbes, it is a purely immanent representation that requires the moment of theologisation to link it to a decisive power that holds together immanence and transcendence, history and ideas, life and authority, power and goodness. By contrast, as becomes clear in the work of Hannah Arendt, the impolitical consists in precisely the contestation of such representation.



Although the impolitical aspect of Arendt’s work is partial and problematic, the notion of irrepresentability is substantial to her conception of politics as plurality. The attempt to represent plurality, she argues, involves a reductio ad unam (which begins with Platonic idealism and extends to 20th century totalitarianism—insofar as it supplements the modern bourgeoise state). More than this, even the logic of revolution, which initially displays an anti-representative impulse, falls prey to an autolegitimating dynamic of restorative return that involves a kind of ‘theatrical’ representation. Furthermore, in her final trilogy, Arendt shows how the will, which is metaphysically founded in terms of contingency and liberty, becomes caught in a paradox of wanting and not wanting that prevents political action or at least allows it only by a violent suppression of the conflictual alterity that constitutes it. The irresolvability of this situation is made clear by the workings of representation and decision, both of which exclude the plurality outside of which every political form is pushed to reverse itself either into its unformed (technical) or deformed (totalitarian) opposite.

If Arendt emphasizes the element of plurality in impolitical thought, Hermann Broch (working in the wake of Nietzsche, Benjamin’s ‘Critique of Violence’ and Freud’s Totem and Taboo) stresses its conflictual aspect. Central to Broch’s critique of political theology is the positing not only of a radical break between law and justice but also of the impossibility of a historical (or eschataological) recomposition of the relation between politics and ethics. This becomes clear in his Tod des Vergil, which takes the form of a dialogue between the Emperor Augustus and the poet Virgil. While Augustus holds that power has the ability to transfigure evil into good, Virgil contends that it is rather evil that transfigures power (by revealing it for what it is). That there is no possibility of synthesis between these positions becomes clear when Virgil cedes the Aeneid to Augustus. In doing this, the poet heeds his notion of justice as the taking of distance from the proprium (the world that is appropriable, the Nomos that gives sanction to property and self-possession). Ethics, in this sense, is the irrepresentable of politics—its inexpressible remainder.

For Elias Canetti, by contrast, the impolitical is not so much the presupposed other of politics as its silent shadow. According to the vision he presents in Die Provinz des Mehschen, power floods all of represented reality. Only at the limits of this fullness does non-power appear, not as the outside of politics but rather its absence or reversal—like an inside-out glove. It is not only a matter of history sanctioning the subordination of the possible to power but also of the capacity of political-theological Oneness to incorporate all alternatives to this univocity, including multiplicity, metamorphosis, and the masses. Yet, insofar as the impolitical is the shadow of politics, it is constituted in opposition to any form of depoliticisation. In a certain sense, the impolitical underlies politics. Or, to put this differently, it is the political seen from its external borders. Canetti thus opens another perspective on the impolitical, which extends beyond its refusal of representation. He associates it with the great tradition of political realism that passes through Thucydides and Machiavelli—that is, with the view that power relations cannot be resolved.

But the implications of this insight are severe. If there exists no end to power or no subject of anti-power, because the subject is always constituted by power, then there is only one way to contain power: to reduce the subject. This is the impolitical imperative pursued in the work of Simone Weil. At stake for her is not a weakening of the subject but a refusal of politics as action—a passive politics, if you like, invested in passion, forbearance, and patience. More accurately, Weil seeks an action-without-agency, which she figures in at least two ways: first, by stressing the mutuality of action and thought (which transforms volition into necessity, making it clear when to act and when not); and second, by privileging abandonment (action not motivated by outcomes) over renunciation (abstinence from action motivated by desire).

Weil’s strategy of refusal (or mysticism, as it is sometimes dubbed) is not a retreat from politics. By declaring ‘in this world there is no other force but force’, she places herself squarely in the realist tradition. But there are two sides to this avowal. On the one hand, it unmasks the pretenses of worldly jurisprudence: ‘The notion of rights is linked to that of partition, exchange, or quantity. There is something commercial about it. … Rights are by their nature dependent on force’. On the other hand, it raises the question of an unworldly force, something akin to death, or what she calls justice. For Weil, such justice can neither combat force nor meet it. But it also imposes a necessary limit on force—insofar as force is all there is and nothing more. It is on this border, where force cannot be sovereign, that the impolitical appears.

As Bataille recognizes, however, borders do not only separate but also hold in common that which they differentiate. The impolitical and political, life and death, immanence and transcendence—all are held together, for Bataille, in what he designates as the ‘community of the impossible’. Distancing himself from Weil (as well as the two great thinkers of ‘the end of history’—Kojeve and Junger), Bataille seeks to move thought beyond both dialectical synthesis and the mere fluctuation of conceptual opposites. Thus, his conception of sacrifice as a ‘will to loss’ implies a critique of modernity that entails a refusal of both transcendence and an indifferent acceptance of secularism—since to understand the loss of the sacred as the ‘end of the social’ would only license political-theological efforts of forced reconstitution. Without detailing Bataille’s conception of sovereignty as a ‘community of those without community’, it is safe to say that his notion of partage, describing the liminal copresence of separation and concatenation, supplies the book’s most succinct register of the impolitical: ‘the impolitical is not only the limit of politics but also the limit of its own being a limit’.

It is this limiting of limiting, more so than the subsequent (and related) drift toward the biopolitics of community, that interests me in Esposito’s thought. The impolitical provides a way of rethinking politics from its borders and, in so doing, raises the possibility of thinking those borders (or, better, thinking on those borders) from a perspective that is interested in something other than their constitution. Such a rethinking of/on borders seems more urgent now than at the time of the book’s writing, since, in the present conjuncture, the bordering of the political is amplified and enhanced by the proliferation of political borders (within and beyond constituted spaces as well as at their limits) and the various technologies that control them.

Wednesday, September 13, 2006

The impossible monument


The following article was published in Il Manifesto on 10 September 2006.

Ground Zero, il monumento impossibile

Sul confine fra politica e violenza, lingua e guerra. La natura di un evento senza sistemazione in un memoriale

A cinque anni dall'11 settembre, Ground Zero non ha un monumento commemorativo permanente. Certo, hanno fatto molto chiasso il progetto di Libeskind, l'avvio dei lavori per la costruzione del memorial «Riflettere l'assenza», ed ora l'apertura di un «Tribute Center» temporaneo, ma il sito resta una buca nel terreno senza emozione, un progetto incompleto tanto quanto il piano di Bush di «snidare» Bin Laden «vivo o morto».

Quali che siano le ragioni di questo ritardo (e val la pena di ricordare che cinque anni sono più o meno quanto c'è voluto per combattere la prima e la seconda guerra mondiale), esso testimonia quanto sia difficile contenere gli eventi dell'11 settembre nell'ottica dello stato-nazione. Erigere monumenti è uno dei modi in cui gli stati-nazione selezionano come significative determinate perdite, attribuendo loro scopo e valore. Ma, sebbene le vittime dell'11 settembre siano state evocate ritualmente in discorsi di sostegno alla «guerra al terrore», l'evento conserva ancora qualcosa di non assorbito e di «strano», qualcosa che rifiuta di essere integrato nella logica sacrificale della perdita nazionale.

Forse ciò dipende dal fatto che, come scrive Arjun Appadurai nel suo recente Fear of Small Numbers, l'11 settembre è stato un attacco «all'idea che lo stato sia "l'unico gioco in città"». Quel giorno è successo qualcosa che ha portato l'idea di guerra senza autore ad un livello nuovo di gravità. Poiché il responsabile è stato individuato in una rete terroristica globale, legata da meccanismi oscuri ad altre misteriose reti terroristiche, molti stati hanno potuto etichettare in questo modo i propri dissidenti, gli attivisti e le minoranze violente.

La parola terrorismo ha finito presto per designare qualsiasi tipo di attività anti-statuale. E, se negare un collegamento tra gli eventi dell'11 settembre e le forze sociali presenti nel mondo islamico sarebbe futile, il conflitto che ne è seguito è andato assumendo una logica in cui gli stati-nazione, come gli ultimi dinosauri, sembrano vagare per il mondo in una lotta disperata contro nuove forme di vita. In molti hanno tentato di dire cosa c'è di nuovo in questa «guerra globale» che nella sua asimmetria tecnologica, nel moltiplicarsi dei fronti, nella condotta tenuta in zone abitate da civili, nel crollo dei nemici stranieri e interni, ha semplicemente acuito le tendenze già in atto. Ma forse questo approccio è sbagliato.

Forse dobbiamo chiederci se sia in gioco la guerra in quanto tale o, più precisamente, come l'escalation di violenza degli ultimi cinque anni ridisegni la relazione tra politica e guerra - se reputiamo, con Clausewitz, che la guerra sia la continuazione della politica, o se pensiamo, con Foucault, che sia vero il contrario.

Il giorno dopo l'11 settembre, sul Guardian, Saskia Sassen ha definito gli attacchi «un messaggio dal Sud globale», un modo di comunicare al mondo ricco qualcosa che, dopo molti tentativi falliti, poteva essere espresso solo «in una lingua che non ha bisogno di traduzione». In un pezzo intitolato Can Things get Worse? (disponibile su http://dictionaryofwar.org), Tom Keenan le ha replicato a questa tesi con l'idea, espressa tra gli altri da Michael Ignatieff, che gli attacchi siano stati un atto di nichilismo apocalittico, non accompagnato da alcuna richiesta e avente per obbiettivo solo la trasformazione di un mondo irrimediabilmente peccaminoso e ingiusto. Per la prima posizione, la violenza è un linguaggio politico; per la seconda, esprime solo una metafisica.

Entrambe queste visioni corrono un grave rischio. Nella prima c'è il sogno di una lingua universale, di un modo di parlare che non necessiti di traduzione, di un ritorno al momento mitico pre-babelico che precedette la dispersione, la deriva, il proliferare delle differenze. Nella seconda c'è il tentativo di immunizzare la politica da qualunque persuasione diversa dal razionale, di contenerla all'interno di fantasie liberali di consenso, di separarla dalla violenza, dal conflitto, e persino dalla metafisica - come se ciò fosse veramente possibile.

In ultima analisi, fa poca differenza se vediamo l'11 settembre come un atto politico o come un attacco alla politica. Tra queste posizioni c'è una mutua implicazione, anche se sono irriconciliabili. Entrambe presuppongono un mondo in cui la politica e la lingua possono essere trascese. E, così facendo, restringono la nostra capacità di comprensione del conflitto attuale, che certamente deve ruotare sul riconoscimento che il limite tra la politica e la violenza, tra la lingua e la guerra è ad un tempo impossibile e necessario.

Qualsiasi tentativo di limitare questa indecidibilità, sia esso declinato nel gergo dell'unilateralismo («con noi o contro di noi») o come universalismo del diritto, rischia di eliminare ciò che dell'11 settembre, e della guerra apparentemente interminabile che è seguita, rimane scioccante e inaccettabile. Rischia anche di bloccare l'unica via che potrebbe fornire un'uscita da questa situazione: la traduzione, il dissenso, il quotidiano e incessante vivere con la differenza. Questo è il motivo per cui, dopo cinque anni, è ancora necessario insistere sulla natura strana e desolatamente sconosciuta di questo evento. Ed è anche il motivo per cui il monumento migliore resta un non-monumento, una semplice buca nel terreno.

Friday, January 20, 2006

First person plural


Opening sentences from Gunther Anders, Die Anitquiertheit des Menschen Band II. Uber die Zerstorung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution:

To change the world is not enough. We do that anyway. And, in large part, this change happens even without our collaboration. Our task is also to interpret. And this, precisely, to change the change. So that the world does not continue to change without us. And so, in the end, there is no change in a world without us.

Monday, January 02, 2006

Twilight of the Anglosaxon Model

Sarajevo 1992

The following article was published in Il Manifesto on 28 December 2005. The Italian version is available here:

There are those who declared, at the height of the revolts in the French banlieues, that the time had come to recognise that the Anglosaxon model of multiculturalism has delivered greater peace and stability than the French model of republican integrationalism. By now, the course of events has overtaken such proclamations. For anyone with doubts, the violence that occurred at Sydney’s Cronulla Beach earlier this month must shatter the illusion that communitarian models of racial tolerance have been more effective than integrationalist logics in reconciling the complexities of life in diverse societies with the identitarian demands of the modern nation-state. The situations in Paris and Sydney have to do with a wider global conflict that has levelled the distinction between the civil and the foreign war and insinuated itself in the daily rituals of metropolitan life.
Symbol of the affinities between the conflicts in these cities is the detritus that both have left behind: suburban streets lined with cars burned or smashed to pieces with baseball bats. For those who have not followed the events in Australia, these were acts of Middle Eastern youth following the pogrom perpetrated against them by a crowd of 5,000 angry whites gathered at Cronulla Beach, a popular seaside resort in the city’s southeast. Part of the Sutherland Shire, one of the whitest and most racially homogeneous areas of Sydney, Cronulla, unlike other city beaches, is served by the railroad, making it for many years a popular picnic destination for Lebanese and other Mediterranean families that live predominantly in the city’s west. In more recent times, with the construction of bridges and freeways that make car travel from the Western suburbs more feasible, it has also become a gathering spot for young Arabs who cruise the city in modified cars, listen to U.S. gangsta rap, and engage in occasional scuffles with the white surfers who claim the beach as their own. To be sure, this racial violence has acquired a sexual dynamic, partly as a result of a gang rape that became a cause celebré of tabloid racism and amplified the fiction that Muslim men harass white women more than their Anglo counterparts. Thus, it is no surprise that the white backlash rally of 11 December, organised by SMS that were subsequently read out on talk radio and published in the mainstream press, should announce itself as a defense of white women, even as its ostensible cause was a fight between Lebanese youth and two off-duty lifeguards. What occurred that Sunday afternoon will go down as a heavy chapter in Australia’s racial history: white youths draped in Australian flags, tearing the veil from Muslim women and pulverising the male ‘lebs’ and ‘wogs’ who happened to get in their way.
While the images from this event were quickly relayed around the world, the local response was an official attempt to talk down the racial dimensions of the rampage and the passage of emergency laws granting police powers to ‘lockdown’ suburbs and randomly search cars. The following weekend, the beaches of Sydney were heavily patrolled and accessible only to residents of the beachside suburbs, a situation long desired by the racist elements who orchestrated and participated in the progrom. Importantly, the beach has long provided the ground for egalitarian fantasies of public access in Australia, not least among the white intellectual classes. But it is also the space where the otherly complexioned are apt to feel the least comfortable.
It is worthwhile to remember that the Australian coastline is legally designated as Crown land, a peculiar juridical category of the settler colonies that at once extinguishes Indigenous territorial claims and grants the sovereign the right to control private rights and interests over landed property. In this sense, the presence of the Union Jack on the national flag brandished by the white ramapgers demonstrates that their claim on the beach was not a result of some neo-Nazi infiltration but precisely an action in the name of the public or the sovereignty of the people, the very basis of Australian democratic expression. Perhaps this is why the New South Wales Commissioner of Police could describe the rampage as ‘a legitimate protest and expression of disatisfaction.’ And perhaps this also explains why conservatives from the Prime Minister and Leader of the Oppostion down have scrupuously disavowed the racial dynamic that fueled the violence.
To be sure, there are dangers in assuming a stance that denounces the racism of the Cronulla rampagers as vulgar and unbefitting of a nation that prides itself on its multiculturalism. Such a position seeks merely to absolve the national elites from responsibility in the situation, indirectly justifying the populist claim that it is not their business to interfere with expressions of the people. It also fails to ponder the complexities of multicultural tolerance, not least the way in which it leaves unchecked the capacity of those with social power to act intolerantly. By the same token, it is dangerous, given the public disavowal of the episode’s racial aspects, to skirt or complicate the question of race too much. Certainly, it is necessary to point to the sexual dynamics that fuel this and, as we know from Fanon, all other instances of racial violence. Equally, it is crucial to understand the elements of social class, the history of beach subcultures, mateship, or the participation of white women in this anti-Muslim rampage. But to draw the discussion away from race is to risk foreclosing an analysis of how the Australian model of multiculturalism, particularly in the context of global war, fails to deactivate the confluence of racial and nationalist feelings that culminates in episodes like Cronulla.
It is a well-known paradox of Australian multiculturalism that it is the same government department that organises events such as Harmony Day in schools that is responsible for the administration of the nation’s notorious migration detention camps. Under the current war conditions (Australia has been a willing participant in both Afghanistan and Iraq), the presence of internal Muslim communities, particularly those who refuse, often with stridency, to accept their proletarianisation or crimilisation through racist law and order agendas, has posed a consistent problem for the white political classes. Indeed, in the wake of Cronulla, the local conservative member of parliament went as far as to characterise the rampage as revenge for the 911 attacks and the Bali bombings. While Morris Iemma, the recently appointed Premier of New South Wales, wasted no time in describing the police response as a war.
More frightening is the rapidity with which the state of seige has been normalised, at once pushing Muslim and ethnic groups away from the beaches while, for the sake of seaside businesses, compelling Sydney-siders to return to their usual patterns of summer consumption. As we know from cities like Sarajevo, it is often in contexts where the intimacy between cultural groups has been strongest that racial violence assumes its most shocking and vivisectionist forms. For this reason, it is safest not to assume that the thick cultural mixing that one finds in parts of Sydney provides any guarantee against the escalation of the situation. What the city faces now is nothing less than civil war, one which, like the foreign wars we see (or rather don’t see) nightly on our television screens, all too quickly become part of metropolitan life.
It is likely, under the current global conditions, that these urban conflagrations will not limit themselves to Paris and Sydney, but flare up with increasing frequency here and there around the globe. Who knows, Rome or Milan may be next.