Tuesday, March 20, 2007

Parallel Powers: That Volatile Grammar of Rights


The following interview with Aihwa Ong and review of her book Neoliberalism as Exception: Mutations in Citizenship and Sovereignty were published in Il Manifesto on 13 March 2007.

Il neoliberismo è una tecnologia di governo che dall'economia è stata poi applicata alla politica, modellando in senso mercantile i concetti di sovranità e cittadinanza. Un'intervista con Aihwa Ong.

Brett Neilson
Gigi Roggero


Le vulgate sul neoliberismo espresse dala discussione altermondialista mainstream, laddove sono declinate nella soffocante etichetta del «pensiero unico», non hanno nulla a che vedere con la ricerca etnografica di Aihwa Ong. Docente di antropologia a Berkeley, è conosciuta in Italia per i suoi studi sulla cittadinanza flessibile dei cinesi in diaspora (si veda il n. 312 di aut aut del 2002) e l'analisi delle pratiche di cittadinanza e delle tecniche di governamentalità nel caso dei rifugiati cambogiani negli Stati Uniti, come evidenzia il volume Da rifugiati a cittadini pubblicato da Raffaello Cortina. È a partire dal titolo del suo ultimo libro Neoliberalism as Exception (Duke University Press) recensito in questa pagina che la discussione con la studiosa cresciuta in Malaysia prende le mosse.

Cominciamo dalla differenza tra «neoliberalismo come eccezione» ed «eccezioni al neoliberalismo», i concetti su cui si articola il suo saggio...

Più che una dottrina, guardo al neoliberalismo come una tecnologia di ottimizzazione che si è spostata dal dominio dell'economia a quello della politica. Una tecnologia di governo globale che può essere adottata da ogni regime politico, senza richiedere cambi sostanziali nel sistema statale o nell'apparato ideologico.

Nei contesti autoritari dell'Asia, ad esempio, la logica neoliberale è spesso introdotta come un'eccezione al business as usual, senza che questo significhi un cambiamento dei sistemi politici. Vi è semmai un'applicazione selettiva della competizione di mercato, dell'autoimprenditoria e dell'assunzione del rischio, che è infatti incoraggiata in specifiche zone di sperimentazione e non in altre. Così il «neoliberalismo come eccezione» è inestricabilmente connesso alle «eccezioni al neoliberalismo», poiché determinate sfere dell'agire umano e sociale sono giudicate off-limits ai calcoli di mercato.

L'intreccio dei due concetti è quindi un mezzo per accedere alla complessità e alla contingenza che caratterizza sempre l'attività di governo.

L'ineguale applicazione ed effetto della razionalità neoliberale in una nazione è chiaramente illustrata dal caso della Cina, dove c'è stato un intenso sforzo per incentivare l'attività individuale tra le popolazioni urbane, ma simili valori o empowerment sono off-limits nella politica statale. Un'azione selettiva che ho affrontato nel libro Privatizing China, Socialism from Afar.

Negli ultimi anni la questione dell'Asia, in particolare della Cina, è stata accompagnata in Italia dalla crescente paura per la competizione economica rispetto all'Europa. Qual è, secondo lei, il possibile rapporto tra una dettagliata e circoscritta ricerca etnografica (su cui il suo libro è basato) e una generalizzazione analitica sulla regione?

In Occidente alcuni autori e giornalisti si divertono a diffondere ansia sull'ascesa delle economie di mercato asiatiche. Una prospettiva estremamente pericolosa che ha le sue radici nella paura per il relativo declino delle superpotenze occidentali. Chi studia la Cina attraverso un lavoro sul campo tratteggia invece il quadro di una società vasta, eterogenea e dinamica. Molte nazioni asiatiche vedono il loro futuro strettamente interrelato a quello della Cina, fattore che potrebbe portare a una potente regionalizzazione economica nell'Asia Pacifica (si pensi all'organizzazione «Asean plus 3»), ma questo non costituirebbe certo una prova che la Cina cerchi un dominio politico fuori dai propri confini.

Lei traccia un parallelismo tra le trasformazioni della cittadinanza e quelle dell'università. Studenti e professori diventano imprenditori di se stessi, o «teconimprenditori». Quali sono le contraddizioni di questo processo? È possibile costruire delle eccezioni al «neoliberalismo come eccezione», cioè una visione alternativa dell'università e del sapere?

Il problema è la costruzione di una formazione universitaria pubblica. La University of California, un network di undici campus che costituisce il più prestigioso sistema universitario pubblico degli Stati Uniti, sta ricevendo sempre meno fondi, così è costretta a competere per risorse esterne e ad aumentare le tasse agli studenti. Stanford University è un eccellente esempio d una corporate university guidata da un presidente che ha stretti legami con Google e grandi imprese della Silicon Valley. L'anno passato ha raccolto più soldi di ogni altro campus americano, incluso Harvard, sia per finanziare la ricerca, sia per diventare istituzione globale.

Comunque, non dobbiamo pensare che, siccome le aziende supportano le università, i docenti non siano liberi di esprimere idee, fare ricerca e insegnare senza l'influenza del mercato. Il principale ruolo delle università negli Stati Uniti è insegnare i valori dell'Illuminismo, e come tali i campus sono un vitale contropubblico e interlocutore del capitale. L'esempio del «tecnoimprenditore» si riferisce a Singapore, città-stato che esplicitamente modella se stessa come un hub di conoscenza commerciale, dunque è il caso particolare di una piccola nazione dedicata alla mercificazione del sapere.

Lei ridefinisce la sovranità attraverso l'analisi degli «spazi latitudinali», che istituiscono nuove forme di mercato e provocano una etnicizzazione e mobilità del lavoro. Forse sarebbe utile esaminare la possibile emergenza anche di spazi longitudinali, che attraversano e sovvertono le geografie del potere. Se non si può ipotizzare un contropotere globalmente uniforme, quali sono i nuovi spazi di resistenza che emergono nel neoliberalismo?

Gli spazi latitudinali sono tracciati dai network transnazionali delle corporation. Nelle reti transpacifiche delle imprese asiatiche, i sistemi di mercato includono elementi di lavoro coercitivo, mentre le resistenze si formano all'interno di specifici milieus industriali. Molti sindacati occidentali vedono i lavoratori asiatici (in Occidente e in Asia) come rivali o peggio ancora, non comprendendo le loro particolari condizioni di lavoro e di vita.

Nella sua ricerca evidenzia il mutato ruolo delle metropoli nelle trasformazioni dei regimi di produzione, della sovranità e della cittadinanza. In cosa la sua analisi diverge rispetto a quella della studiosa di «global cities» Saskia Sassen?

Saskia Sassen ci ha fornito un efficace quadro
del ruolo cruciale che le metropoli globali hanno nel sistema economico. Io sono più interessata alle metropoli asiatiche come i principali siti degli investimenti statali.

Prendiamo il caso di Hong Kong, che sta rapidamente emergendo (eclissando Shangai) come il principale sito di investimento aziendale nel boom cinese. La sua ascesa come centro finanziario, allo stesso livello di Londra e New York, è dovuta alla sua localizzazione e al suo ruolo nella Repubblica Popolare Cinese. Lo status globale di Hong Kong è dovuto infatti alle possibilità di accesso alla sbalorditiva ricchezza della Cina, al talento umano e alle grandi opportunità di investimento.

Lei analizza come la governance neoliberale influisca sui cambiamenti dell'etica e della cittadinanza. Nel contesto italiano, in cui alcuni si rifanno alla distinzione machiavelliana tra politica ed etica, questo ricorso all'etica (presente in diversi seri lavori nel «mondo anglosassone») diventa talora il modo per evitare questioni politiche dirimenti, come il problema di mettere in comunicazione le strategie di mobilità e resistenza del lavoro vivo. La sua ricerca in Asia suggerisce la necessità di rivisitare la classica divisione tra etica e politica?

Machiavelli si concentra sulla ragion di Stato: questo modello giuridico della politica esercitato sul territorio nazionale confina l'etica nel regno della morale individuale. La nozione di potere sovrano spesso limita la comprensione del potere come una dinamica e una relazione mutevole.

Abbiamo urgentemente bisogno della nozione di Foucault di un'arte di governo che ha per oggetto la popolazione piuttosto che lo spazio nazionale. A differenza di Machiavelli, la governamentalità foucaultiana ha infatti per oggetto la popolazione, focalizzandosi sui piani della vita collettiva e individuale all'interno di specifici territori. Ora, a questa forma di gestione della condizione umana partecipano varie autorità (organismi multilaterali, Organizzazioni non governative) come professionisti dell'umano, eccedendo il contesto dello Stato-nazione.

La governamentalità sospende dunque la libertà del sovrano e fa affidamento sui saperi moderni (economia politica, biologia, psichiatria, medicina, scienze umane) per configurare la popolazione come un dato e un campo di intervento.

L'esercizio del potere/sapere dipende inoltre dalla varietà di meccanismi (tecniche militari, statistiche) che individuano una molteplicità di oggetti e di problemi. Il concetto foucaultiano di potere aggira dunque la sua visione meramente repressiva per riconoscerlo come forza produttiva: la relazione delle strategie e delle contro-strategie forma i campi particolari dei rapporti di forza. Individuare il potere come tecnica e pratica ci permette di seguire il flusso e le contingenze della decisione, dell'azione, delle resistenze e della trasformazione.

Il potere non è congelato nelle leggi, monopolizzato dallo Stato o dal capitale, ma è una sempre cangiante, strategica, mobile e pervasiva relazione di forze esercitata negli ambienti della contingenza e dei flussi. Io seguo la nozione foucaultiana di etica come pratiche di auto-formazione, ad esempio la cura del sé collegata a una particolare comunità di valori morali condivisi. Le pratiche etiche sono quindi inseparabili dalle quotidiane pratiche che intrecciano le sfere privata e pubblica.

Questa nozione del potere fondata sulla pratica è analiticamente cruciale per afferrare le problematiche politiche contemporanee e le strategie di risoluzione dei problemi. Non possiamo applicare concetti vecchi al mondo radicalmente diverso di oggi. Non ci sono contesti semplici e universali, o risposte già date in un mondo di molteplicità, flussi e incertezza. Come antropologa, provo a comprendere specifici milieus di problematizzazione e di risoluzione di problemi, provando a descrivere le vite delle persone senza far ricorso a metodi universali di cambiamento sociale.



Norme globali a geometria variabile

Cittadinanza, sovranità, formazione. Sono i campi» di intervento della studiosa Aihawa Ong nel libro dedicato al neoliberismo


Sajit è un ingegnere indiano trasferitosi negli Stati Uniti attraverso un «body shop», sistema di intermediazione che alloca il lavoro a basso costo nei mercati dell'hi-tech. Approdato in California dopo aver lavorato in un'azienda di software a Houston, Sajit - come molti suoi connazionali - fa anche il taxista, strada temporanea per realizzare il proprio «sogno americano». Sogno di difficile realizzazione, per Sajit così come per gli ingegneri bianchi della Silicon Valley colpiti da un vero déclassement quando le loro ditte hanno deciso per l'outsourcing a Bangalore, in India appunto. Potremmo dire che la divisione del lavoro cognitivo assume coordinate spazio-temporali nuove, estremamente mobili e continuamente rideterminate non solo dentro le singole aree geografiche, ma anche all'interno delle biografie individuali.

È proprio questo uno dei meriti della ricerca etnografica condotta tra Asia e Usa da Aihwa Ong, raccolta in Neoliberalism as Exception (Duke University Press): analizzare i meccanismi di scomposizione e riarticolazione della sovranità e della cittadinanza, a partire dai movimenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione dei soggetti e del lavoro.

Il regime neoliberale, argomenta Ong, è innanzitutto una rivoluzione spaziale. La frammentazione dello Stato-nazione non corrisponde all'estinzione, ma all'estensione di una sovranità che diventa flessibile. Sciolto il suo legame con la territorializzazione spaziale, la cittadinanza è ora una figura a geometria variabile, continuamente rideterminata dai flussi di capitali e dai movimenti del lavoro vivo. La radice della crisi della cittadinanza è individuata dall'autrice in tre fattori: la crescente migrazione, l'espandersi delle corporation transnazionali, l'internazionalizzazione dell'istruzione superiore. Di conseguenza, la grammatica dei diritti, lungi dall'essere radicata nella cittadinanza formale, si disvela nella sua realtà materiale. La metropoli diventa il nuovo spazio laterale in cui si articola il rapporto tra sovranità e mercato, una sorta di hub in cui l'esercizio del comando è funzionale alla capacità di attrarre risorse. Al tempo stesso, la rispazializzazione del territorio nazionale si determina poi attraverso le zoning technologies, cioè produzione flessibile di un arcipelago di enclave a sovranità variabile - è il caso del rapporto tra Cina, Hong Kong e Macao. La formazione assume qui un ruolo fondamentale, in quanto tecnologia sociale per la costituzione di soggetti in particolari spazi. L'università diventa quindi una «libera zona di impresa», un sito di investimento per la «tecnoimprenditorialità» o, come nella Boston d'oriente, Singapore, un incubatore di business per gli studenti-imprenditori.

Ripartiamo dal titolo: neoliberalismo come eccezione è tecnicizzazione della politica e gestione della vita sociale attraverso strategie di calcolo. L'eccezione funziona come meccanismo di inclusione differenziale. L'antinomia di Agamben tra la normatività e la nuda vita viene qui rovesciata: nell'Asia contemporanea la logica dell'eccezione non è associata alla pura sospensione dei diritti, ma alla creazione di condizioni per aprire mercati. Dovremmo ora interrogarci sulle eccezioni al neoliberalismo, incarnandole però in quelle irruzioni di mobilità fuori controllo che minacciano le forze latitudinali del potere aziendale. Sono queste la maggioranza di donne migranti che in Asia non desiderano la cittadinanza, bensì libertà di movimento. O quegli impazienti lavoratori cinesi che vogliono guadagnare soldi e nuove skill (competenze), rifiutando fedeltà alle corporation. Contestando il concetto di moltitudine, interpretata come soggetto omogeneo, l'autrice si concentra sulle lotte specifiche che si dispiegano negli spazi interstiziali tra diversi regimi etici: quelle delle femministe islamiche in Malaysia o degli indigeni che resistono alle nuove forme di accumulazione originaria nel Borneo. La ricchezza della ricerca etnografica della Ong dovrebbe forse aprirsi alla domanda sulla connessione tra queste situazioni, cioè al problema della comunicabilità delle lotte: alla costruzione, quindi, di un'eccezione generale al «neoliberalismo come eccezione».